Segnalo la lucida analisi del comportamento iraniano su di un articolo pubblicato sulla Stampa di oggi.
di Farian Sabahi
Quando prendo il taxi, a Teheran, è sempre la stessa storia. A fine corsa, chiedo al conducente quanto gli devo e lui mi risponde: «Si figuri, non mi deve nulla!». La buona educazione prevede che il cliente chieda il prezzo tre volte. Solo allora il tassista dice la cifra da pagare, talvolta esorbitante. In persiano questi salamelecchi si chiamano «tarof» e, trasversali a ogni ceto sociale, sono parte della vita quotidiana. Anche a tavola l’ospite accetta il cibo solo dopo avere rifiutato tre volte.
Come dimostra la lettera inviata da Ahmadinejad a Bush, il gioco del presidente iraniano deve essere interpretato in quest’ottica: quando inveisce contro l’America intende l’esatto contrario e cerca un riavvicinamento che vuole però far pagare caro. Dopotutto, recita un proverbio, chi disprezza compra. E gli iraniani imparano fin da bambini a giocare a scacchi nonostante un divieto imposto dall’ayatollah Khomeini all’indomani della Rivoluzione e peraltro mai rispettato.
Queste strategie sono difficili da comprendere sia per gli occidentali sia per gli iraniani della diaspora. Qualche anno fa un amico iraniano, da tempo a Torino, portò a cena un giovane che aveva appena lasciato Teheran. Quando passammo con i piatti di portata il giovane iraniano rifiutò il cibo. Alla fine della serata non aveva mangiato nulla. L’amico che lo accompagnava riuscì a farsi dire che, essendo ospite di iraniani, pensava valesse la regola del tarof: avrebbe rifiutato il cibo tre volte prima di servirsi. Ma, al suo primo no, nessuno aveva insistito.
Analizzando il comportamento del presidente Ahmadinejad, occorre quindi tenere presente che si tratta di un personaggio cresciuto in una cultura diversa, indubbiamente più sofisticata di quanto si possa giudicare in prima battuta. Quando Ahmadinejad scrive a Bush proponendo «nuove soluzioni ai problemi internazionali e all’attuale fragile situazione mondiale», è ben consapevole dei molti interessi di Washington a un riavvicinamento.
Ecco tre esempi. In Iraq, gli iraniani potrebbero aiutare gli sciiti al governo a promuovere la stabilità e combattere la guerriglia di Al Zarqawi. In Afghanistan potrebbero collaborare con la coalizione internazionale grazie alla comunanza culturale, religiosa e linguistica: il persiano è parlato da parte della popolazione afghana e lo sciismo è la fede della minoranza Hazara. In Siria potrebbero fare pressione sul regime di Bashar al Assad affinché interrompa il sostegno al terrorismo.
Messo fine all’isolamento dell’Iran, la comunità internazionale sarebbe in grado di aiutare questo Paese a sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in tutta sicurezza. Si riuscirebbe così a sottrarre Teheran alle grinfie dei russi di cui c’è oggettivamente poco da fidarsi visto che, vent’anni dopo Cernobil, costruiscono centrali atomiche in Iran, un Paese ad alto rischio sismico, senza dare garanzie al resto del mondo. (...)
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