A marzo del 2017 Michal Kosinski, uno psicologo e Ph.D di Cambridge, professore a Stanford di Organisational Behavior, presenta al CeBIT i risultati di alcuni suoi studi: la Psicometria applicata nel contesto dei Social media. Più precisamente una delle metodologie più applicate: i cosiddetti Big Five (cinque tratti di personalità, tradotti in italiano con: apertura mentale; coscienziosità; estroversione; amicalità e stabilità emotiva – neuroticism in inglese), attraverso i quali si creano dei grandi cluster di profilazione. Se non vi fa pensare ai miei Cluster digitali avete ragione: sono infatti due cose diverse, anche se contigue.
Dicevo, la psicometria è nota e usata fin dagli anni Novanta per determinare i tratti di personalità con un modello metrico, appunto: mediante interviste, sondaggi, ecc. Kosinski ha utilizzato i dati dei social, Facebook in particolare, per arrivare a risultati più precisi in minor tempo. Nel video mostra un grafico nel quale, analizzando i like degli utenti della sperimentazione, individua i tratti di “personalità” con precisione: con poche centinaia di like, in particolare, l’accuratezza che lui afferma sfiora il 90%. Il video si chiama “The End of Privacy”, c’è anche un sito da lui predisposto – potete provare se volete, basta loggarsi con Facebook: applymagicsauce.com
Anche sulle ricerche del professore di Stanford si fondano molte attività alla base dello “scandalo” datagate che ha coinvolto Facebook. Le ripercussioni nelle elezioni americane del 2016, nel referendum della Brexit e, secondo alcune fonti come il Guardian, anche in altri casi, sono al centro delle attività di questa società dal nome evocativo, Cambridge Analytica (la cui origine vi è ovvia, adesso). La quale non è certo l’unica – come confermato da Zuckerberg – ma oggi la più famosa a fare uso dei dati per fini commerciali e politici. Su tale argomento vi rimando a un articolo del Post che spiega bene l’accaduto (un giro sul profilo Twitter di CA comunque può essere istrutttivo, in parte perché si occupano di “Behavioral Microtargeting”, e in parte per i loro following…).
Il comportamento automatico
Quello che volevo sottolineare però è un altro aspetto di questa vicenda, ovvero il comportamento che c’è spesso dietro alle nostre attività – sui social e non solo. Kosinski, se avete avuto la pazienza di vedere il video, dimostra che con un certo numero di like è in grado di delineare i tratti di personalità. È così? Possiamo rispondere di sì, in generale. Però, cosa vuol dire che “delinea la personalità” e soprattutto che cosa “osserva”?
La psicometria è una descrizione oggettivo-descrittiva: osserva e cataloga. Prima di Internet si utilizzavano le indagini e le interviste di persona, cioè uno psicologo o uno psichiatra controllavano il contesto esperienziale, e la persona mentre faceva i test. Quello che succede coi social invece è un po’ diverso, e si manifestano tre cose: i) i fenomeni di disinibizione e ii) decontestualizzazione, e iii) una serie di “comportamenti automatici”. La disinibizione data dal mezzo – cioè il fatto di avere davanti uno schermo e non una persona in carne e ossa – è un fattore determinante, perché non ci consente di renderci conto delle sfumature di comunicazione non verbalizzata, e sono molte. I comportamenti automatici che si scatenano in questo contesto (social) rendono l’osservazione molto soggetta a fraintendimento, anzi direi che è la cosa più comune (basta vedere nei commenti, nei flame, nelle infinite discussioni, ecc.).
Il discorso decontestualizzazione esperienziale però è più interessante. Cerco di spiegarlo in breve: il fatto di leggere una cosa o di scriverne sui social è molto lontano dall’avere un’esperienza di quella cosa. Le modalità di coinvolgimento dei social media rendono la narrazione un po’ più distante dalla realtà, collocando l’esperienza condivisa in un “non-luogo virtuale” il quale è trasmesso e verbalizzato.
In tempi di profonde trasformazioni nel contesto della comunicazione e dell’interazione verso l’altro, il mezzo influisce in modo molto più subdolo di prima: oggi Facebook viene consultato da miliardi di persone ogni giorno (e decine di milioni solo in Italia), perlopiù in mobilità. Si è sempre connessi e si parla delle proprie cose, delle proprie esperienze, e questo avviene però, nella maggior parte dei casi, senza appartenere al contesto in cui le cose si vedono ed avvengono. È come una sorta di dialogo a distanza: il luogo è virtuale e perennemente decontestualizzato. In questa modalità è come se mancasse la possibilità di riflettere sull’esperienza comune che si condivide. Si parla “al di là dell’esperienza”, che non è un “insieme a” ma è trasmessa, verbalizzata – viene creata dalle parole e dalle immagini, scelte tra le più suggestive e coinvolgenti. E dove i giudizi, tra l’altro, si sprecano.
La psicometria così è un osservazione dall’esterno di cose che noi abitualmente facciamo e diciamo o di quello che altri fanno o dicono; nel caso dei social, che gli altri scrivono. Attenzione, però, perché la nostra conoscenza dell’altro è influenzata dai nostri bisogni e aspettative. A questo punto la domanda sorge spontanea: questi dati che si leggono e si vedono, quanto corrispondono a quello che la persona è, alle sue motivazioni interiori? Beh, purtroppo poco. Una vera consapevolezza esige il disvelamento dei propri meccanismi interiori di autoinganno, di conoscenza del Sè, di narrazione personale. Inoltre, la relazione tra comportamento esterno e pensiero si disvela tramite l’azione.
Non solo. Anche l’azione e il comportamento, che si ritiene pensato, riflettuto, frutto di libero arbitrio, in molti casi è invece automatico (tramite le euristiche, quando va bene, o i bias quando c’è distorsione cognitiva…). Spesso la persona non conosce veramente le ragioni per cui fa qualcosa, a volte interrogata sulle motivazioni del proprio comportamento fornisce delle spiegazioni non congrue. Qualsiasi psicologo o psicoterapeuta vi confermerà questa esperienza: è il costrutto narrativo in cui si “racconta una realtà”. Già il fatto che il nostro comportamento sia espressione diretta e consapevole della nostra volontà nella realtà è discutibile; figuriamoci sui social.
Gli algoritmi e la consapevolezza
Torniamo agli algoritmi. Loro sanno qual è la molla o il movente che innesca e provoca un comportamento automatico? Tendenzialmente sì, ma con dei distinguo molto importanti. Ad esempio la propaganda: il richiamo a un ideale, a un valore, a un bisogno o a una paura sono temi conosciuti dal marketing comportamentale e ampiamente sfruttati da professionisti della comunicazione. Il problema qual è? Che se questi click, questi like, sono frutto di comportamenti automatici allora non sono particolarmente consapevoli. In altre parole la persona che fa click, mette un like ecc. sulla base delle sollecitazioni, agisce in un contesto di cui non ha pieno controllo né piena consapevolezza in un significato più generale. Dunque, in questo contesto gli algoritmi osservano tali reazioni e tali comportamenti e misurano il grado di inconsapevolezza che questi comportamenti hanno. È un problema? Probabilmente no, ma nel senso che queste dinamiche non dipendono primariamente dai social. L’inconsapevolezza c’è a prescindere: si esplicita su Facebook perché è il social più diffuso e con più capacità di attrarre fiducia e coinvolgimento. Il fatto che “ci condizioni”, ad esempio, è abbastanza privo di senso: gli algoritmi amplificano, selezionano e ci presentano una “realtà” che è in gran parte quella che già vediamo o, meglio, che vogliamo vedere. Tanto che se non ce la presentano loro l’andiamo a cercare noi (lasciando tracce puntuali, peraltro, che li aiutano nella selezione). La differenza è che sono molto bravi e precisi, e stimolano i comportamenti automatici per tracciarne la magnitudine e presentare i contenuti voluti a un sempre più ampio numero di persone (e inserzionisti).
Un comportamento consapevole può essere imprevedibile, ma solo nel singolo. Sui grandi numeri gli algoritmi misurano, catalogano e incasellano, e lo fanno molto bene – ma questo lavoro si è sempre fatto. Oggi è su più larga scala, e su un contesto differente. L’aspetto importante è che gli algoritmi non “leggono nella mente”, esattamente come non lo facciamo noi. E dopotutto non ha poi così tanta importanza, perché la mente non è un “oggetto” sigillato che si prende e si legge; non agisce isolatamente, a volte è inaccessibile perfino a noi stessi. Si esplicita invece quando agiamo, e nel contesto, e le componenti delle emozioni, dei sentimenti, della memoria, dei valori, producono senso e significato al nostro pensiero – e magari in quell’attimo si chiariscono anche a noi…
Il problema allora non è tanto il fatto che quello che si scrive sui social sia letto o scandagliato da altri, e poi utilizzato dal marketing o dalla politica. Questo, come dice l’ormai celebre Marco Montemagno, si sapeva già da un pezzo: la vendita dei dati è il business delle piattaforme, e l’analisi psicometrica sui social è l’ultimo tassello di un modello che – per esempio – in Italia ha esempi notevoli. Il problema casomai è sapere la reale “accuratezza” che questi dati contengono, avere la consapevolezza di quel che si scrive e, soprattutto, di ciò che si vuole leggere.
Per ulteriori approfondimenti, suggerisco:
- The Science Behind Mindfulness Meditation (video, 2016), su Automatic Behaviour