Image by Chandra Marsono via Flickr
Sembra facile,
all’inizio. Perché c’è un certo entusiasmo, ci sono un paio di buone idee
(certificate da colleghi e consulenti), c’è voglia di fare. Il percorso, come
fondatore su web e poi come dipendente di imprese di tutti i tipi, dalle
piccole alle multinazionali, sembra deciso: mi faccio la società! (tipo
“mi faccio la barca”, storico film di Johnny Dorelli, per chi se lo
ricorda…).
La maggior parte dei
miei amici coetanei ha fondato società, ed ero rimasto l’unico a non farlo.
Avevo creato redazioni , riviste, siti, progetti, e sono pure entrato in
società con altri. Poi, mi sono voluto laureare per far contenti genitori e
parenti, pensando che questo avrebbe tranquillizzato anche la coscienza.
Ma a contratto come
dipendente, ho scoperto progetti senza capo né coda, report senza senso, e
soprattutto subappalti informatici “a loop infinito” (società A
prende la commessa e dà in appalto a società B che la dà in appalto a società C
che la fa fare a società D che la fa eseguire materialmente alla società
E), e macchinette del caffè
tremendissime hanno creato, penso, la mia superficiale sicurezza che il mondo
dell’informatica come dipendente in fondo va avanti benissimo anche senza di
me. Anacronistici orari 9-19, di cui 3 ore passate in auto, due ore per
mangiare, e il resto davanti a un monitor, interminabili pomeriggi davanti al
monitor, e la concomitante passione per tutto quello che si muoveva su internet
bruciava dentro.
Covava quindi sotto
la cenere lo spirito dell’iniziativa: mettersi in proprio per cercare una via
di fuga dalla monotonia e dalla dipendenza (da progetti assurdi). E la
riflessione ambigua : “Tu non farai gli errori che hanno fatto altri
perché hai l’esperienza dalla tua”. Illuso.
L’entusiasmo, la
voglia di fare, il “coraggio dell’intrapresa”, è durato infatti
giusto il tempo necessario per inoltrarsi in un mondo, quello delle startup,
che apparentemente viene descritto come avvicinabile, ma che in realtà nasconde
molte insidie ed ambiguità. Soprattutto per chi non è più giovane.
Da buon metodico
razionalista, ho provato quindi ad
informarmi: partecipando a convegni, workshop, incontri, , scambio di
opinioni con addetti ai lavori, ipotesi di lavoro, consulenze di amici e
colleghi. E poi, con l’entusiasmo in tasca (e vi assicuro non è facile a 40
anni), ho mandato la prima mail esplorativa ad un famoso amico che
“startuppa”.
Risposta
esplorativa: “Certo Luciano, mandami il pitch”.
“E cos’è il
pitch?” mi domandavo tra me e me, mentre mi chiedevo anche “ma perché
non mi invita semplicemente a prendere un caffè e ne parliamo?”… Beh, non
funziona più così.
Ecco il primo
problema. Un tempo, e questo lo ammetto con estrema facilità, capire se c’era
possibilità di fare qualcosa insieme era un rito regolato da incontri de visu.
Creare oggi un’impresa, invece, significa passare per un percorso
standardizzato ed asettico, e questo è un processo difficile per chi, come me,
conosce il mondo di internet da 20 anni (purtroppo non scherzo, era il 1992
quando mi collegavo la prima volta). A
cosa sarà servito?
In realtà serve:
molti mi conoscono, godo di quella che si chiama “una buona
reputazione” (?) ma, ovviamente, questa è utile se stai ad un party e ti
presentano una ragazza, o se fai marketing per la tua azienda, ma per creare
una startup è diverso: bisogna dimostrare a qualcuno che ti deve dare soldi,
che la tua idea farà soldi, e non solo:
che non ti ci affezionerai, e la cederai volentieri quando diventerà
profittevole.
Azzero tutto e
riparto: “pitch” è una cosa tipo pre-presentazione, e poi c’è il
“seed”, il “meetup”, gli “angel”, i
“round” e tutto il rosario di inglesismi necessari in quest’ambito
perché l’importante è una cosa sola: l’idea da finanziare deve essere
internazionale, altrimenti nessuno ti dà retta… E questo è un altro scoglio.
La mia idea sarà
bella e brava, ma se è italiana, nessuno la vuole finanziare. Non
fraintendetemi, non ho detto che non si può rendere “internazionale”,
come piace ai finanziatori, ma è una cosa che, seppure su web, si scala su
mercato locale. E include incontri di persona. Mi piace unire il mondo
telematico con i rapporti umani “reali”, e non ho mai pensato che le due cose possano
essere scisse (anche se si tende a fare proprio questo oggi, virtualizzando
tutto).
E’ difficile far
penetrare questo approccio nel “pitch”, o in un’application form.
Davvero.
Ho provato a
contattare un laboratorio di incubazione: già il termine non mi piace perché mi
ricorda sempre qualcosa di brutto, ma poi in questo contesto si usa ripetere
molte volte la parola “giovani” che mi fa sempre sentire leggermente
inadeguato alle aspettative. Comunque,
con ancora un po’ di entusiasmo dello startupper in tasca, ho compilato quella
che si chiama l'”application form”. A mezzanotte e un minuto il
server mi ha detto che ero fuori tempo massimo e alla 24esima scheda compilata
mi ha sbattuto fuori. Mi sono sentito “fuori tempo massimo” anche io.
Il problema è che
dietro a questa idea c’è una storia. Se non si conosce la storia, non si
capisce l’idea. Non basta scriverla su un pitch o un’application form, o almeno
quello va bene, ma bisogna anche parlarne e raccontare qual è la passione
sottostante l’idea, bisogna fermarsi un
momento per farsi descrivere cosa c’è dietro, le persone che la vorrebbero
portare avanti, le loro motivazioni, il piano di massima, la strategia.
Difficile definire un approccio del genere, ma a ben vedere sono (siamo) tutte
persone che hanno esperienza di impresa e hanno alle spalle business già fatti.
Quindi persone + idee. A me piace
pensare che la persona venga sempre prima dell’idea, ma forse ho un concetto
troppo ideale di impresa. Un giorno però questo concetto l’ho sentito dire
anche da un famoso esperto di startup, e mi ha fatto molto piacere. Ma poi non
ho avuto il coraggio di dirgli altro. Sono timido ed ho la paura del rifiuto…
Oggi, mi è venuta
voglia di scrivere questo articolo per un motivo: mentre giravo tra notizie di
finanziamenti e portali di autoaiuto per aspiranti startupper, la mia
attenzione è stata rapita da questo titolo: “Voglia
di impresa? Troviamoci per un aperitivo!” E vai, ho detto. Finalmente
l’approccio giusto che cercavo! Vado, clicco, e leggo…..ed è un peccato, l’iniziativa è per sole donne.
Forse loro sì, che
hanno capito tutto…
Aggiornamenti
Sull’argomento segnalo questo articolo:
Egomnia e il fallimento della mentalità degli startupper italiani (Antonio Lupetti, 10/07/2012)