Il 18 maggio ho conseguito la mia seconda laurea, in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria all’Università degli Studi di Tor Vergata. Ok, c’era già quella di ingegnere informatico ma questa è stata la laurea che ho sentito più mia: quella “vera”, se così si può dire. In questo percorso ho trovato un felice connubio sia professionale, su tematiche che seguo da alcuni anni – sociologia della comunicazione, ma anche la mia antica passione: psicologia – sia soprattutto umano, incontrando persone straordinarie. Devo gratitudine a chi ha avuto la pazienza di seguirmi con puntuali consigli e necessaria strutturazione delle mie (tante, troppe) idee, in un lavoro che ha poi portato alla stesura di una tesi originale, del cui oggetto di ricerca, i «cluster digitali» scriverò – auspicabilmente presto – in un articolo a parte. È stata insomma una bellissima esperienza, faticosa e arricchente, che probabilmente proseguirà (nell’ambito dell’insegnamento, da cui il titolo).
Perché ne parlo qui? Per un paio di motivi. Il primo è tenere traccia sul blog di un evento per me importante. Dal primo post sono passati esattamente quindici anni (era il 2002) e già nei primi dieci di cose ne erano successe: ogni tanto mi capita di rileggere cos’è cambiato intorno a me, e anche come sono cambiato io, e il blog a mio avviso rimane ancora il posto migliore per fermare qualche esperienza e concetto.
Il secondo motivo è mettere a fuoco qualche elemento che ho tratto da questo percorso di studi. I temi di fondo che ho riscontrato sono sostanzialmente tre:
1 – Cambiare quando non va. Dopo la felice esperienza nella Nice (dal 1998 al 2004), dove avevo portato le mie esperienze e competenze degli inizi, mi sono trovato a lavorare per alcuni anni in Telecom Italia, e successivamente in una società di consulenza e system integration, e come programmatore in un team romano tra i più validi e produttivi che abbia incontrato. Eppure… è stato proprio in quell’occasione che ho avuto la crisi più dura: alla fine del 2010 mi sono reso conto che la programmazione, e in parte anche il Web development non erano più la mia strada. Non era solo un problema cognitivo (i dolori di stomaco mi affligevano da ormai un paio di anni) ma ero cambiato io, e dagli anni dell’esordio editoriale a quelli dell’ingegneria del software i miei interessi si erano spostati sempre di più su altre tematiche. Usavo ancora gli strumenti “del mestiere” come Eclipse, configurandolo alla perfezione per il Php e il versioning SVN, ma l’esperienza diventava sempre più terribile.
Nel 2011 ho quindi preso un anno sabbatico e ho cercato di capire cosa non andasse in me: avevo una laurea in quel ramo ed ero programmatore da anni, quindi era molto difficile riconfigurare (per usare un termine congeniale) un percorso professionale avviato, anche se in crisi. Ricordo come quel periodo fosse orribile.
Rileggendo quell’esperienza posso dire invece che è stata la fase più utile. Dovevo staccarmi da un mondo che non era più il mio, per capire che il mio mondo era un altro. Verso la fine di quello stesso anno capitò un evento di quelli che ti cambiano la vita: Giovanna Abbiati, con cui poi avrei fatto cose belle e importanti, mi chiamò per chiedermi se ero disponibile a insegnare nel nascente Master in Comunicazione e New Media all’Ateneo Regina Apostolorum. Avevo già tenuto dei corsi di programmazione, ma in strutture piccole e con poche persone. Si presentava un’occasione per un salto qualitativo e per mettermi davvero alla prova. Risposi di sì, con qualche timore ma anche molta motivazione. Proprio nell’Ateneo ho scoperto quella che, con un po’ di prosopopea, ho chiamato la mia “vocazione all’insegnamento”, ed è stato davvero una rivoluzione, anzi l’inizio del cambiamento. Negli anni successivi ho realizzato un percorso formativo sui temi dei social media, che come early adopter conoscevo bene, insieme alle competenze digitali che come tecnico portavo in dote, riuscendo a coprire i molti argomenti nel numero prefissato di ore (sforando un po’…). In quel periodo ho scoperto che trasferire le mie competenze era sì faticosissimo ma anche bellissimo, e che insegnare è un’avventura che ti impegna a capirne di più, a informarti di più, a saper ascoltare di più e ad imparare, molto, dagli studenti e dai colleghi. È stato un salto che ha poi portato alla riconfigurazione (arieccola) del mio percorso professionale: perché a quel punto avevo capito che il rapporto con l’informatica e la telematica era cambiato e che quello che avevo studiato e imparato lo dovevo riorganizzare per poterlo trasferire ad altri, che l’avrebbero usato in modi diversi e nuovi. Da quell’esperienza peraltro è nata anche quella grande iniziativa che è stato il TEDxViadellaConciliazione, nel 2013, di cui proprio in questi giorni si riparla per l’intervento che Papa Francesco, che allora era stato appena eletto, ha tenuto al TED di Vancouver ad aprile di quest’anno. E molte altre cose che alla fine hanno consentito di capire che l’ambiente dell’insegnamento poteva essere una strada mia.
2 – La formazione continua (soprattutto in tempi di analfabetismi). Quando si esercita una professione come l’ingegnere, o il medico, o l’architetto, ci si dovrebbe tenere continuamente aggiornati. In realtà nell’informatica è palese, ma nella mia esperienza la stessa cosa vale per quasi tutte le professioni qualificate. È un problema molto sentito, perché non sempre è possibile frequentare corsi (se non ci pensa l’azienda presso cui si lavora, bisogna provvedere da soli, per non parlare del giusto tempo da dedicarci, gli argomenti da scegliere, ecc.), e i temi tecnologici – come detto – sono fortemente “sotto pressione”. Non ho usato il termine pressione a caso: talvolta parlo con amici che svolgono professioni in ambiti molto diversi, come ad esempio psicologi e psicoterapeuti, ma anche teologi, e anche in questi campi l’aggiornamento è divenuto imprescindibile. Per rimanere nell’esempio, solo in psicologia negli ultimi vent’anni è cambiato quasi tutto: molti dei modelli che fino agli anni Novanta andavano bene, oggi sono sottoposti a profondi processi di revisione. Questo accade grazie alle nuove scoperte nel campo delle neuroscienze e della psicoterapia. Tuttavia, è chiaro che chi ha studiato in quegli anni, oggi si trova a dover affrontare un percorso di riqualificazione complesso e a volte neanche ben chiaro (ci sono decine di modelli e scuole diverse…). Lo stesso discorso si può estendere, come si diceva, ad altre professioni. Ora immaginate cosa voglia dire quando bisogna insegnare qualcosa, in uno o, come nel mio caso, in più campi disciplinari contigui: l’aggiornamento formativo non deve solo essere continuo ma il più possibile diversificato e approfondito. Così ho capito che se volevo essere un insegnante valido dovevo colmare alcuni gap che nel tempo si erano evidenziati, nell’ambito delle scienze umane. Come ingegnere e come esperto del Web ero coperto dal lato tecnico, e con la rivista avevo approfondito alcune tematiche sulla comunicazione e sull’editoria, ma approfondire in modo più strutturato queste tematiche era diventato improcrastinabile. Ecco allora che nel 2014 è maturata la scelta di intraprendere un percorso di studio nuovo, che mi ha portato poi a conoscere la realtà di Tor Vergata, dopo aver selezionato l’offerta delle due altre università pubbliche romane, come la più confacente a quello che stavo cercando. Lì ho trovato persone straordinare, a partire dalla mia tutor che ha ritagliato “su misura” un piano di studi poi rivelatosi ottimale, alla mia relatrice che ha affrontato e strutturato il tema della mia ricerca nel momento stesso in cui lo stavo chiarendo a me stesso.
Da questo percorso di formazione impegnativo ho tratto almeno due lezioni importanti: senza una cultura a largo spettro, che unisca sia il lato più tecnico (nel mio caso le scienze dure) che quello umanistico, non è pensabile essere un buon formatore. Tra l’altro, ho verificato anche quanto sia importante il processo di approfondimento culturale proprio per poter leggere la complessa realtà che ci circonda. Purtroppo, approfondendo le mie ricerche – anche per la stesura del lavoro finale – mi sono reso conto di come il nostro Paese, da questo punto di vista, sia molto molto indietro. Non mi dilungo negli esempi – neanche credo ci sia bisogno di farne: ma tra analfabetismi digitali, “funzionali” (che sono però sempre da definire nello specifico) e di ritorno (quando si smette di studiare e si iniziano a perdere quelle conoscenze e competenze che si erano acquisite con gli studi), la situazione è drammatica, e c’è molto lavoro da fare.
3 – Le dinamiche dei social network. Si potrebbe cominciare col “fanatismo che corre sulla rete”, e credo sia esperienza di tutti averlo incontrato in qualche discussione online. Tuttavia la situazione oggi si è molto complicata. Proprio sulle dinamiche distorsive dei processi digitali, evidenziate dai social network, si è concentrata la mia ricerca negli ultimi anni. Ci sono fanatismi religiosi, storici, c’è un fanatismo politico, sociale, in generale una narrazione ideologica che vive di pseudo-verità fin da tempi non sospetti, come si suol dire. Ma è soltanto quando queste ideologie si saldano con le dinamiche dei social network che il discorso cambia completamente: le narrazioni distorsive si amplificano e si rinforzano in modalità che fanno fare il salto di qualità a quello che prima era confinato a un ristretto novero di persone – vuoi perché poco informate, vuoi perché poco propense ad allargare i propri punti di vista. Da qualche anno (generalmente si situa dal 2009-2010, quando la diffusione dei social media è divenuta pervasiva) centinaia di migliaia – e milioni – di persone si trovano a condividere narrazioni comuni in un modello di diffusione nel quale gli algoritmi hanno una parte preponderante. Pensando di favorire i gusti degli utenti, infatti, i vari filtraggi effettuati dalle piattaforme fanno vedere quello che è ritenuto gradito all’utente ─ spesso non sbagliando. L’effetto è una sorta di loop: le persone effettuano delle scelte, selezionano per prime fonti e contenuti alla ricerca di temi specifici che confermino credenze e preconcetti (inclusi bias e quant’altro), e gli algoritmi iniziano a filtrare i contenuti presentando sempre di più quel tipo di contenuti. A partire dalla filter-bubble, individuata nel 2011 da Eli Pariser partendo dalla personalizzazione dei risultati di ricerca di Google, ci si è accorti che il fenomeno distorsivo è diventato talmente ampio da produrre un effetto ancora più allarmante: il modello conversazionale si sta deteriorando in modo così rapido, rendendo le persone meno abili al confronto e al dialogo ma anzi più chiuse e refrattarie, che non si parla più di “bolle digitali” ma di vere e proprie «celle blindate» (Luciano Floridi). È un processo noto specialmente agli addetti ai lavori, ma che nel 2016 è salito alla ribalta per le elezioni di Donald Trump negli USA, e per il termine fake news usato un po’ come il prezzemolo. Il problema della disinformazione e delle false notizie è stato messo a fuoco in particolare da un paio di grandi ricerche uscite negli ultimi mesi (soprattutto Anatomy of news consumption, pubblicato su Pnas a inizio 2017), che mostrano come conseguenza primaria del processo distorsivo l’estrema polarizzazione su temi specifici. Proseguendo nelle ricerche ho osservato qualcosa che rende il modello stesso fortemente aggregativo, innescando un disancoraggio tra esperienza e realtà (dove il racconto e la narrazione sono gli elementi comuni) che produce effetti evidenti: le elezioni politiche sono un esempio, ma i prodromi sono visibili già prima in molti luoghi della rete.
Queste tre tematiche hanno reso un percorso di studio e formazione ora più “chiaro”, potendo approfondire in modo appropriato gli ambiti di comunicazione, sociologia, psicologia e storia. Quando si insegna, bisogna prima di tutto imparare: è una banalità se vogliamo, ma si può declinare in vari modi. Ho imparato (e sto continuando a imparare) a ragionare, ad esempio, in modo scientifico, che non è una cosa né facile né scontata. Uno storico può distorcere la verità se rinuncia ad approfondire i fatti per “far tornare i conti”. Così quando si scrive qualcosa di scientifico – o comunque con un certo livello di rigore – bisogna abituarsi a dimostrare tutto quello che si sostiene, a collegare i fatti e le idee, e anche a metterle e mettersi in dubbio, se necessario.
Oggi è questo forse uno dei punti nodale di molte criticità interpretative: in un contesto informativo tanto ricco, distinguere le cose con il dovuto tempo e livello di approfondimento è una sfida per tutti: c’è un processo entimematico (di verosimiglianza) a cui l’utente è continuamente sottoposto, che richiede un lavoro di affinamento e selezione che implica a sua volta una capacità critica che perfino per gli “esperti”, a volte, non è scontata né immediata; è un mix di intuito e capacità ed è complicato, realisticamente, per la gran parte delle persone riuscire a capire dove si fermano le opinioni o le fake news (spesso disseminate a bella posta) e dove comincia il «fatto nudo» che comunque, come diceva già Kelly nel 1955, non esiste. Potrei anche citare il famoso effetto Rashomon, per cui ad esempio quattro osservatori diretti di un fatto riportano quattro versioni diverse dello stesso: è un discorso complesso che vale la pena di affrontare. Il rischio, già in parte realtà, è di affidarsi ad enti terzi (dalle piattaforme digitali alle istituzioni) per decidere cosa leggere, vedere, cercare – in un processo di selezione che inevitabilmente non è trasparente, non può mostrare gli “unknown unknowns“, ovvero le cose che non stiamo vedendo (concetto reso famoso da Donald Rumsfeld nel 2002).
Dunque, inizia una nuova sfida. Che partirà dal rimettere le mani sul lavoro fatto, intanto, per le necessarie correzioni e migliorie in modo da poterlo eventualmente diffondere con contezza. E poi pensando a un programma formativo, quando sarà il momento, sui temi suddetti. Sarà un impegno non banale, ma collaborare con persone con cui c’è una bella sintonia e uno scambio proficuo di stimoli e idee è una combinazione che mi attira e molto rara, nella mia esperienza.. Durante questi mesi non soltanto ho lavorato molto a migliorare le capacità di selezionare, collegare le cose, scriverle in modo corretto (soprattutto meno narrativamente) ma ho dovuto inventare, diciamo così, un metodo per raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato, e applicarlo: in altre parole, imparare a motivarmi da solo per portare a termine il progetto, però non “da solo”, ma anche grazie al prezioso e paziente aiuto delle persone che ho avuto la fortuna di incontrare sul cammino.
Insomma, pensavo di essermi fermato, e si sono accumulate invece tantissime cose da fare. Nel corso di self-management all’Ateneo forse mi servirà qualche consiglio 🙂