(la prima e la terza versione del quadro)
In una lettera inviata alla vedova Marie Berna, poi contessa Oriola, il pittore svizzero Arnold Böcklin offriva del dipinto da lei commissionato – noto oggi come L’isola dei morti – una chiave suggestiva di fruizione e di interpretazione. La contessa avrebbe «sognato nel buio mondo delle ombre», per poi avvertire “leggero il tiepido alito di vento increspare le onde del mare, in un silenzio solenne e irreale che una sola parola bastava a turbare”.
L’effetto immaginato dal pittore di Basilea – convinto, peraltro, che ogni spettatore dovesse dare ad un dipinto la propria personale interpretazione – avrebbe coinvolto, insieme alla contessa Oriola, le più sensibili e inquiete coscienze del tempo. Di quel tempo in cui crollavano certezze e valori, in cui immagini di morte, metaforiche o reali, venivano dovunque percepite e spesso esasperate. Ignota e misteriosa risulta la genesi stessa dell’opera: frutto di funeree fantasticherie? Trasposizione di visioni oniriche o di un’immagine effettivamente reale? Böcklin, al riguardo, non volle dare alcuna indicazione, né tanto meno un nome e una stesura definitiva. Il titolo attuale lo si deve, infatti, al mercante d’arte berlinese Fritz Garlitt, mentre in origine il dipinto era noto come Un luogo (o un’isola) tranquillo. Solo più tardi, quando si vollero accentuare le tematiche della morte e della caducità, quel cerchio concluso di scuri cipressi e pareti rocciose divenne per Böcklin l’isola dei sepolcri, metafora di una morte intesa come cesura dolorosa, come viaggio, senza possibilità di ritorno in un regno misterioso e oscuro, dove servi senza volto e senza voce eseguono autonomamente il loro tragico e ferreo dovere. Particolari inquietanti, introdotti o sostituiti nelle cinque versioni successive del quadro (eseguite tra l’80 e l’86 e conservate ai musei di Berlino, Lipsia, Basilea e New York, eccetto l’ultima distrutta da un incendio nel 1945), rimandano, espliciti, ad una univoca e comune esperienza, sospesi tra realismo e finzione, illusione epifanica e “razionale” classicità: lugubri cipressi, che colpirono, sempre più fitti, le accese fantasie di D’Annunzio (che li volle al Vettoriale) e di Salvador Dalì; i massicci calcarei o le pareti megalitiche, interrotte da leoni di pietra e bianche strutture templari, quasi ad accrescere il senso sacrale di silenzio e di immobilità. All’isola rocciosa, lungo quelle acque immobili e silenti, si accosta una piccola e nera imbarcazione: a bordo, accanto a un feretro infiorato, una bianca figura evanescente, una mummia, forse, o ancora l’ombra di un morto o di un traghettatore.
Nel primo caso, l’isola troverebbe un voluto riscontro nelle antiche piramidi d’Egitto, ricche, a loro volta, di latenti simbologie. La presenza di colonne e strutture templari sembra invece far propendere per un’isola greca o, comunque, del Mar Mediterraneo (Itaca, per qualcuno, o forse Pondi Konissi, mentre per altri si tratterebbe di Ponza o della mitica Scheria, la terra dei Feaci oscura e fatata). Per lo storico dell’arte Zoltan Magyar va accettata invece l’identificazione con un piccolo isolotto nel mar dalmata, tanto più che il vescovo croato Ioseph Hlinka attestò di aver visto il pittore intento, al largo della costa, a ritrarre quel luogo. Per altri, infine – e tra questi lo studioso ischitano G. Buchner – quel luogo altro non è che il Castello aragonese, sede, un tempo, di un’area cimiteriale, cui si accedeva per mare su scalinata scavata entro la roccia.
Ad Ischia il pittore avrebbe infatti soggiornato un anno prima della data in cui fu realizzata la versione originale (1880). A prescindere, comunque, da una identità, che mai del tutto sarà svelata, l’isola dai riflessi funerei e lunari avrebbe acquistato man mano contorni di realistica icasticità, in un gioco sottile di ombre e colori, che ne accentua la sinistra enigmaticità: la navicella col feretro e la salma si accosta sempre più al gradino roccioso; le nitide strutture architraviche, aggettanti e chiaramente visibili, si incastonano e quasi scompaiono in fondi rocciosi; al quieto chiarore lunare succedono, infine, cupi bagliori nel cielo e nelle acque del mare. Diffusa nelle cinque versioni, ciascuna riprodotta in più copie, l’isola ossessionò a lungo, come accennato, diversi protagonisti del secolo passato. Freud, ad esempio, aveva del dipinto più copie, alcune delle quali esposte nel suo studio; Jung affermava che quell’isola archetipica ricorreva di frequente nei sogni di molti suoi pazienti. La tomba stessa di Böcklin, al cimitero inglese di Firenze, si presenta come un picco roccioso, recintato da pietre, sormontato da cipressi svettanti.Un simile paesaggio ispirò lo sfondo scenografico della Sonata degli spettri, il dramma ispirato all’oltretomba, dello svedese Strindberg, acquirente di una copia del dipinto poi scomparsa misteriosamente. Neppure mancò chi volle trasporre la suggestione visiva in elegiache e funeree sinfonie di suoni e parole. Rachmaninoff (1873-1943), ad esempio, reduce da una grave depressione, rese quell’isola il leit-motiv, insistente e pervasivo, di quattro drammi di musica e poesia; una seconda trasposizione la si deve ancora al tedesco Max Preger, mentre con Klinger (1857-1920) l’opera trovò un’originale applicazione nel campo della tecnica grafico-espressiva. Ma più ancora del suo artistico spessore, del fascino inquietante e carismatico connaturato all’irreale visione, fu soprattutto la fama “sinistra” del dipinto ciò che gli valse duratura fortuna.
In un passo del romanzo di Dürrenmatt, dal titolo Il giudice e il suo boia, si immagina che il protagonista trovi nella casa dell’amico poco prima assassinato «un gran quadro, dalla cornice dorata, davanti alla camera da letto: raffigurava l’ isola dei morti».
Ancora Hitler, estimatore di arte e soprattutto di pittura, acquistava ad un’asta, nel 1936, la versione del quadro ora esposta al Museo di Berlino. In una foto riprodotta in copertina al volume di Mario Dolcetto Nazionalsocialismo esoterico, il dittatore, con Molotov e Ribbentropp, è ritratto nel suo studio, dopo la firma del patto tra Russia e Germania. Alle spalle dei tre, campeggia (quasi come un tragico monito) il dipinto di Böcklin, ancora affisso alla parete quando Hitler si tolse la vita. (…)
Informazioni tratte da Lucia Mattera – La raccolta d’Ischia
Qui c’è una galleria delle sue opere