Luciano Giustini ragionamenti a lettere..

Perché Anon è un piccolo capolavoro (e non è adatto per il cinema)

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Dando per scontato che Netflix è una droga, nelle mie serate di preparazione a un esame mi è capitato di guardare distrattamente Anon, un film distribuito da Netflix per la regia di Andrew Niccol (Gattaca, S1m0ne, InTime). L’ho poi rivisto per la seconda volta, fermandomi su alcuni frame, cosa che si può fare solamente da un computer. In questo contesto, Anon (da anonymous) è un piccolo capolavoro e insieme un incubo.

L’idea di base è interessante: realtà aumentata sulle persone e non solo sulle cose. Scena dopo scena, dei metadati descrivono esattamente quello che vede un detective di un ipotetico futuro (impersonato da Clive Owen); in un mondo futuristico la privacy è un concetto superato e la trasparenza un obbligo di legge. Di ogni persona, o cosa, inquadrata da un bioimpianto oculare (innestato alla nascita, presumibilmente), viene mostrata in realtà aumentata età, nome, impiego, caratteristiche fisiche, tratti della personalità (incluse eventuali psicopatologie), condanne, atti efferati, tic, eccetera. Degli oggetti viene mostrato il valore, l’età, la tipologia, l’utilizzo, il costo, e se sono in vendita la pubblicità; dei cibi, viene mostrata la composizione, il valore nutrizionale, la quantità e così via. Questo per tutto ciò che è osservabile sulla scena.

Il costrutto ipotetico su cui è fondata la società tecnologica descritta in questo futuro, dunque, è che i metadati restituiscano informazioni non solo su ciò che cerchiamo o all’interno di un ecosistema ma su tutto ciò che vediamo, nel presente o nel passato (essendo tutto registrato). Il nostro protagonista quando guarda una persona – anche, anzi soprattutto, sconosciuta – vede una cosa del genere:

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Sembra futuribile, ma assomiglia molto a una società conosciuta, un incubo “desiderabile” anche piuttosto vicino: se state pensando ai social network o ancor di più a Black Mirror, credo che il riferimento sia un po’ quello per tutti. Non è esplicito (non sarebbe giusto con il regista), ma il filone concettuale è quel futuro: un futuro distopico dove il senso di sé è messo in discussione dalla tecnologia, in accordo con leggi accettate da tutti. La trama, abbastanza comune in molte visioni distopiche dei film recenti, è sacrificare una grossa parte della libertà per aumentare la sicurezza (e in teoria la giustizia). In questo caso la polizia può conoscere l’esatta dinamica di ogni evento criminoso semplicemente verificando le registrazioni, dal punto di vista del criminale, della vittima, o eventualmente di terze persone presenti sulla scena. Tutto poi è salvato su un enorme database centralizzato che naturalmente – senza spoilerare troppo – è anche il punto debole della faccenda.

Comunque, a parte i particolari informatici a volte un po’ banalizzati, e il solito hacker di turno, guardarlo con attenzione regala due cose: la fotografia cara al regista, una sorta di futuro anni ’70, e altri che su uno schermo cinematografico si perdono: i dettagli delle minuziose descrizioni che – a sorpresa – sono veritiere. All’inizio pensavo che le schede dipanate per ogni persona fossero una serie di lorem ipsum messi lì per riempire il vuoto, e invece no: sono “vere”, con dati inventati ma comunque plausibili, e quelle sugli oggetti e i cibi sono invece reali in tutto e per tutto.

La questione, purtroppo poco sviluppata nel film (più concentrato sul lato criminale, e si perde anche un po’ nel finale) è il legame tra questa possibilità voyeurista, resa concreta dal legame tra tecnologia e visione distribuita, e le implicazioni sul piano cognitivo-decisionale. Ogni soggetto ha la sua scheda, e questa scheda riporta i tratti caratteriali, il passato, le azioni, eccetera: una specie di network pervasivo dove invece di avere un “profilo Facebook” scritto da sé (e a propria scelta), tutti devono avere un profilo obbligatorio che viene mostrato a chi ha i privilegi e condiviso con chi si vuole. Tutti i dati sono schedulati e vengono aggiornati – presumo – con una qualche frequenza.

Ora, quello che viene mostrato e registrato – esattamente come avviene oggi con i social – è quello che la persona guarda, fa, dice o scrive. Cosa si sa di quello che è il suo pensiero? Poco o nulla, come poco si sa delle intenzioni e delle motivazioni, che infatti non vengono mai spiegate, se non molto superficialmente. Nel film la complessità della questione cognitiva viene risolta in modo spesso banale, semplicemente concentrandosi sull’azione-reazione. In questo caso, la scelta di limitare i dialoghi facendo parlare solo le immagini ha un senso e forse è una precisa scelta di regia.

Rimangono insoluti due problemi: le schede sono un distillato di ciò che la persona è, ma le persone cambiano. Quindi ogni volta che si esamina la scheda di un altro si guarda uno storico che potrebbe essere non aggiornato o rappresentare una scorciatoia per il più classico pre-giudizio: la scheda è una proiezione esattamente come lo è il profilo Facebook di una persona che pensiamo di conoscere. Questo aspetto è probabilmente proprio quello voluto dal regista, che immagina le società del futuro sempre intrinsecamente dominate dalla tecnologia, che rende l’uomo più potente, ma anche più infelice, rigido nelle sue idee e chiuso alle emozioni (Gattaca in questo senso è il riferimento).

La seconda questione riguarda il grande aspetto delle motivazioni, lasciato sospeso. In una scena iniziale si assiste a un suicidio: viene registrato tutto il punto di vista del suicida ma non una parola sul perché lo fa. È un fil rouge presente in tutto il film: nessun protagonista, neanche minore, spiega quali emozioni lo conducono a certe scelte. Tutto si basa sul non detto, o per meglio dire su un appiattimento caratteriale che forse è anche il limite della pellicola. Il non detto è importantissimo in un film che gioca sul conflitto cognitivo-emotivo (mi viene in mente il bellissimo Ida, dove ci sono pochissime parole ma comportamenti chiari), ma in Anon c’è qualcosa che manca.

Anche se non è sviluppato adeguatamente, il tema che dietro a ogni sguardo potenziato c’è un pensiero e un movente, di cui non sappiamo nulla, rimane. Quando il protagonista si concentra su ciò che vede, pensa di vedere una realtà che, pure aumentata, rimane però molto parziale.