Antonio Spadaro con la collezione de La Civiltà Cattolica (Photo credit: Wikipedia)
Padre Antonio Spadaro SJ, pubblicando una riflessione sulla mia bacheca Facebook tratta da un suo articolo su Avvenire, mi ha stuzzicato, perché sa che sono sensibile al tema della comunicazione telematica e cerco di comprenderla fin da tempi non sospetti. L’articolo “Realtà: duale, digitale o aumentata? L’ontologia di un mondo ibrido” si inserisce all’interno di un dibattito dal titolo “Realtà. Duale, digitale o aumentata?”. Con Chiara Giaccardi – autrice di un’altra riflessione sulla stessa pagina del quotidiano dal titolo “Online/offline? Per i nostri figli non c’è differenza” – padre Spadaro ha discusso sul tema a partire da un post del sito di Nathan Jurgenson (“Digital Dualism versus Augmented Reality“). L’irruzione dei social network nelle nostre vite impone nuove domande sul rapporto tra l’esistenza sul web e quella in carne e ossa: si escludono, si ostacolano, si completano? Padre Spadaro giustamente sottolinea, in conclusione, che in fondo non è che la versione aggiornata dell’antica esigenza di coniugare spirito e materia.
Nel tempo mi sono fatto idee ben precise sulle grandi possibilità e positività della telematica, ma anche di quali siano i punti critici e gli elementi che spesso ci sfuggono, nel flusso comunicativo che pervade le nostre vite. Provo a mettere a fuoco qualcuno di questi elementi, nella speranza di non creare più confusione ma di aggiungere qualche tassello su alcuni aspetti che mi piacerebbe approfondire un po’.
Innanzitutto individuare un’ontologia è cosa sicuramente complessa e difficile. Nel mondo “ibrido” della rete, non si può non partire dal fatto che per i nativi digitali, oramai, non c’è più differenza tra mondo “online” e “offline” – come ha analizzato Chiara Giaccardi nel citato articolo. Voglio iniziare riportando alcune frasi estratte dall’articolo di Padre Spadaro che ritengo significative e importanti:
“Finché si dirà che bisogna uscire dalla relazioni in Rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un’identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri. La sfida non è solamente etica ma anche profondamente spirituale.”
“Una delle sfide maggiori oggi è quella di non vedere nella Rete una realtà parallela, ma uno spazio antropologico interconnesso in radice con gli altri della nostra vita. Invece di farci uscire dal nostro mondo per solcare il mondo virtuale, la tecnologia ha fatto entrare il mondo digitale dentro il nostro mondo ordinario. I media digitali non sono porte di uscita dalla realtà, ma estensioni capaci di arricchire la nostra capacità di vivere le relazioni e scambiare informazioni.”
L’assunto dell’autore è sicuramente corretto perché la presunta distinzione tra lo spazio del digitale (“virtuale”) e quello del materiale (“reale”) sta diventando sempre più difficile da sostenere anche per chi non ha un approccio particolarmente “informatico” o telematico al mezzo. Ci sono poi delle concrete modifiche tecnologiche che stanno cambiando il modo stesso di percepire questa ipotetica differenza. Lo vediamo ad esempio con l’iPhone 5, la cui presentazione è avvenuta proprio ieri, che consentirà tra le altre cose di dettare i propri stati e commenti su Facebook con la voce.
English: Augmented GeoTravel for iPhone uses augmented reality to display informations (Photo credit: Wikipedia)
Quindi è tutto uguale? Possiamo affermare che è come se stessimo fisicamente davanti a una persona o un gruppo di persone, a commentare o a chiacchierare del più e del meno o di importanti argomenti?
No, assolutamente, non possiamo affermarlo a cuor leggero: esiste un dualismo digitale (anzi si potrebbe dire che ne esiste più d’uno), anche se sarebbe meglio non esistesse, e non si può prescindere da esso. Ci sono tre aspetti a mio parere fondamentali in tale approccio:
1) Io sono quello che comunico (in rete). Sono la persona che comunico di essere, e sono colui che comunica, che scrive, che interviene. Senza la comunicazione non c’è dualismo, e qui vorrei sottolineare che non vale il postulato di Watzlawick secondo cui “anche non comunicare è comunicare”: se io non comunico, in rete, non esisto. Se comunico male, offrirò il fianco a critiche e darò una “versione” di me non particolarmente accattivante. Se comunico bene, riuscirò a dare un’impressione migliore, forse. Se comunico con identità diverse, è come se più parti di personalità di me fossero in rete, ecc. Comunque sia, siamo legati ai concetti di presentazione, di dialogo e di giudizio (accettazione), e comunichiamo quasi sempre con la parola scritta, che è qualcosa di parziale: condizione irrinunciabile.
2) Sono anche quello che racconto e mi racconto. L’aspetto dal quale si fa fatica a prescindere, ed è difficile accettare, è che non stiamo esattamente nella realtà, ma stiamo raccontando una realtà (la nostra, o quella che osserviamo o crediamo di osservare). E non solo stiamo raccontando una realtà agli altri, ma la stiamo raccontando anche a noi. Se io ritengo che una penna arancione sia verde, dirò a tutti che ho davanti a me una penna verde. Naturalmente nel “virtuale” gli altri non hanno possibilità di verificare che il colore sia arancione, ma l’aspetto più intrigante è che anche io che la vedo penso che la penna sia verde. Si disquisirà su una penna verde, che nella realtà è arancione. Il dialogo probabilmente si svilupperà in modo più o meno intelligente (a seconda di quante persone possono accorgersi che la penna è verde), e qualcuno potrà dire che è arancione anziché verde, o magari che la penna è blu: il racconto allora diventa scontro, critica, antagonismo. Le realtà raccontate divergono. Serve un “decisore” che sia super-partes, ma difficilmente si rinuncia al proprio racconto della realtà, perché nelle isole del sapere ogni racconto ha la sua dignità di vita.
3) Lo schermo rappresenta la mia protezione. Non si può prescindere dall’esperienza separativa che rappresenta lo schermo. Non solo comunichiamo in forma scritta, che è parte (piccola) della comunicazione ma facciamo di peggio: ci colleghiamo e usiamo webcam e microfoni, facciamo videoconferenze, incontri chat, tutto nella presunta illusione che sia come stare lì. Non è così: stare fisicamente in un luogo o stare dietro lo schermo di un computer sono due cose intrinsecamente diverse ed egualmente efficaci. E’ importante, però, avere la consapevolezza di tali diversità. Nella comunicazione scritta, noi usiamo solo 1/5 della comunicazione totale, manca il tono della voce, il timbro, il volto, la mimica facciale, la mimica corporale, insomma tutta la comunicazione non verbale che è molto di più di quanto siamo portati a credere. Nella comunicazione online, poi, ci illudiamo ancora di più perché è vero che si vede la persona e si sente la voce, ma è altrettanto vero che – dato questo – noi riconosciamo a tale modalità un 100% di quella comunicazione mentre invece è solo un po’ meglio della telefonata.
Ma soprattutto, una persona dal vivo può comportarsi in un modo, con un computer invece cambia tutto, e viceversa: ho la protezione dello schermo. E socialmente tutto si amplia perche’ io ho il ritorno in tempo reale dei miei “comportamenti” in rete ─ ma e’ tutto filtrato e protetto dallo schermo, salvo poi accorgersi che tutta la gamma degli stati d’animo, le sensazioni, le rabbie e le discognizioni, sono realissimi.
Insomma, il discorso dell’ontologia si scontra con quella dell’identità digitale: io in rete posso essere anche altro da me stesso, crearmi più identità, assecondare gli aspetti della mia personalità o quelle di altri, assecondare gli altri per inserirmi in un discorso o non essere attaccato, non provare rabbia, non riconoscere in fondo che la penna è arancione. Dunque c’è un aspetto di disconoscimento che non va sottovalutato ma va ricompreso nel tema del racconto: io racconto me stesso nel flusso digitale.
Ma cosa sono capace di raccontare? E chi sto raccontando? Ecco, di solito si racconta una versione leggermente diversa da quella che è visibile, che so, al pub davanti agli amici, o in famiglia, o con i colleghi e questo per le implicazioni che abbiamo fin qui detto. Certo, è chiaro che siamo sempre noi, ma bisogna vedere quale parte di noi. Nello specificare le modalità digitali, bisogna allora saper riconoscere che c’è tutta una gamma di sentimenti, emozioni, relazioni (e su questo ci ritorneremo più tardi) che viene tagliata fuori. Per usare un termine caro agli ingegneri delle telecomunicazioni, assistiamo ad un campionamento della realtà: non è detto che il segnale corrispondente riporti quello iniziale. Se è fatto con modalità sbagliate, semplicemente sarà una distorsione più o meno fedele.
Sulla realtà aumentata, il discorso si complica perché senza dubbio tutto va adattato alle scarse capacità digitali della popolazione attuale sopra i 30 anni. Se per i 20 e 30enni di oggi indossare un paio di occhiali a realtà aumentata o posizionare il cellulare davanti a una strada per visualizzare i punti di interesse può essere del tutto naturale e normale e normalizzato (ontologicamente) per gli altri vedere la realtà con un oggetto che per ogni suo aspetto la altera, con informazioni aggiuntive in tempo reale, magari connesse e condivise con e da altri, rimane un salto difficile da digerire, e per alcuni sopravviene il rifiuto (esattamente come per la madre che si rifiuta di imparare a mandare sms: non è che non lo sa fare, ma non lo vuole fare). Certo, i film di fantasticenza ci hanno abituato ad un futuro di realtà aumentate senza lesinare sui particolari. Il fatto è che guardare un tramonto rimane un’indescrivibile brivido di bellezza che ci fa passare ad un livello di realtà aumentata che nessun oggetto tecnologico potrà mai eguagliare e spiegare, e per fortuna è così.
Bisogna spegnere completamente i nostri device digitali per rendersene conto. E accorgersi così di quanto siamo connessi.
Infatti, oltre che di realtà aumentata si dovrebbe parlare di popolarità aumentata. Col fatto che aumentano le possibilità di interazione e di riconoscimento, noi cerchiamo sempre di più il feedback, il riconoscimento, l’accettazione, il consenso intorno a quello che scriviamo, o fotografiamo, o viviamo e questo è un tema ad es. che i politici conoscono bene: il politico parla per avere consenso (che poi si traduce auspicabilmente in voto, in percentuale). Questo paradigma è assolutamente presente molto più di quanto ce ne rendiamo conto. Conosco amici e colleghi, persone che stimo e che ammiro, che sono totalmente presi ed avviluppati da questo meccanismo straniante. Essi pubblicano in continuazione opinioni, commenti, sensazioni, progetti, idee, in un vortice di azione, reazione, e controreazione (che significa essere influenzati dalle reazioni e ricominciare il ciclo con le nuove interazioni) che rischia di stritolare il flusso cognitivo ─ provocando una sorta di drogaggio: questo surplus spesso è del tutto inconsapevole. Così come conosco altrettanti amici e colleghi che si oppongono strenuamente all’approccio telematico, rifugiandosi in una torre d’avorio sprezzanti e giudicanti, tal quali gli altri. Sono due facce della stessa medaglia
L’ipotetico osservatore “esterno” che guardasse questo brulichio di attività noterebbe che in molti casi c’è una sovrapproduzione di contenuti e di comunicazione, in dosi sempre più massicce, fino ad una sorta di overdose che poi tipicamente si produce in un rigetto, (è quando ad es. leggiamo di qualche amico che annuncia imperiosamente “Basta! Non ce la faccio più voglio uscire da Facebook sono circondato da idioti che non mi capiscono!“).
Salvo poi appena passato il picco, si tornerà a comunicare come prima, pronti per una nuova dose di riscontri e commenti che ci fanno sentire vivi, perché inseriti in un contesto che sentiamo appagante ─ naturalmente finché i commenti sono positivi, e nessuno mette in dubbio le nostre convinzioni, o almeno non lo fa in modo perentorio. Nel momento in cui ciò accade, solamente una percentuale minima di persone, in genere prosegue la comunicazione. Gli altri, semplicemente, evitano la realtà che è discorde da quanto loro raccontano e si raccontano.
Infine, visto il punto di vista di partenza, la statura e l’ambito nel quale si muove l’autore da cui ho preso spunto per quest’articolo, ci sono alcune considerazioni che mi piacerebbe condividere, con uno sconfinamento (spero perdonato) nel campo filosofico.
E’ una riflessione sul concetto di relazione, che forse è più importante e che tendiamo a non valutare adeguatamente quanto dovremmo, specialmente nel mondo digitale. La realtà (“fenomeno”) che viviamo è quell’unica realtà che non può che manifestarsi a noi attraverso la relazione (posso osare una citazione dalla fenomomenologia, nel significato di Heidegger): qualsiasi realtà può accadere solo nel momento in cui si manifesta (e nel cristianesimo si parla di rivelazione, non a caso). Personalmente trovo una delle cose più interessanti della vita il fatto che, eventualmente, l’unica realtà in sé che tutti possono sperimentare è l’amore..
L’esperienza che io faccio non può essere scissa dal modo in cui la racconto e il modo in cui percepisco la realtà diventa l’essenza. Kant è ancora convinto che esista una realtà separata dalla percezione, tutto quello che uno conosce lo fa attraverso uno schematismo trascendentale, e Husserl fa il passo in più dicendo che “non esiste il soggetto senza l’oggetto, e viceversa”: tutto quello che è, è colto da un soggetto e viceversa. Il soggetto è perché è qualcuno che coglie qualcosa e questo apre la strada ad un pensiero antropologico e teologico notevole: l’uomo è sé stesso in quanto guardato, osservato, pensato.
Per concludere, dunque, penso che oltre che sul concetto di realtà aumentata, forse bisognerebbe porre la nostra attenzione anche su quello di relazione aumentata, perché se è vero che nella prima sicuramente siamo e saremo sempre più circondati di oggetti che ci consentono di sperimentarla di più e meglio, della seconda tendiamo a volerne approfondire i contorni e l’essenza sempre di meno, e questa forse è la vera sfida che ci attende. In un mondo “aumentato”, stiamo dando un “aumento” anche alle nostre relazioni online o tra le due cose c’è una correlazione diversa? E’ una domanda che lascio aperta…
3 thoughts on “Realtà aumentata vs. relazione aumentata”
Aggiungo alcune considerazioni a margine. C’è sicuramente una componente del dualismo di tipo patologico. Possiamo scorrere come con un cursorse da una posizione minimo a una massimo, citando ad es. 4 situazioni.
1) Nel dualismo minimo (sano), siamo nella realtà integrata di cui si parla nei commenti presenti su Facebook. E’ la situazione dei nativi digitali e delle persone senza pregiudizi e idealizzazioni, che vivono allo stesso modo e con la stessa personalità ed identità sia nel mondo reale che in quello online, non percependo alcuna distinzione se non quella dettata dalle differenze sensoriali esplicite ed ovvie.
2) In una situazione più spostata verso il dualismo c’è chi non riesce a sostenere (o sostiene a fatica) una relazione basata sulle qualità secondarie (vista, olfatto, tocco, parola, ecc.) e quindi relega al modello concettuale, intellettuale, (alla fine virtuale) che è uno spazio genuinamente offerto della telematica, la capacità di integrarsi, dove la scrittura consente vita, dialogo, (ma anche attacco e difesa) con un perfetto scudo protettivo (schermo, lontananza, virtualizzazione).
3) Nel dualismo più spinto, invece c’è il vasto campo di chi coltiva idee che trovano ospitalità solo online perché nella realtà verrebbero annientate o (peggio, per chi le sostiene) ridicolizzate dal pensiero comune più raffinato. Un tempo c’era il bar e la cosa era circoscritta lì. Oggi online si possono sostenere tesi al limite dell’assurdo, ma invece di esserci confronto i gruppi si coalizzano, proteggendo le idee e sentendosi spalleggiati dal numero e dal contesto (“Siamo tanti, dev’essere vero”). Ritorna il tema di cosa sia vero e cosa no, in un ambito dove ogni idea ha dignità di vita e dove ognuno ha la sua verità. In questo caso il confronto è risolutivo, perché le idee meno valide tendenzialmente vengono via via eliminate in favore di quelle utili o realistiche (visione positivista), ma il rovescio della medaglia è che bisogna imparare ad avere spirito critico (fare selezione) e capacità di dialogo non comuni, specialmente tra chi non ha dimestichezza nè col confronto né col mezzo telematico. Già chi ha grande abilità mediatrici addirittura si trova in difficoltà verso queste personalità..
4) C’è infine chi non riesce a risolvere l’incapacità a stare online perché trova resistenza al proprio pensiero, e subentra il rifiuto. Sono persone imbevute di idealismi, che a contatto con la telematica scoprono infinite tesi diverse, tutte tremendamente realistiche, che percepiscono dunque aggressive contro il loro mondo raccontato. C’è di nuovo il tema del racconto: qui la dualità è massima, non c’è alcuna corrispondenza tra “l’online e l’offline”. Il tema del rifiuto è tutto da affrontare, ma il pregiudizio deprime i tentativi perché si ha la percezione che nulla “online” è uguale a quello che vediamo fuori.
E’ il contrario esatto dei nativi digitali, che, come si diceva, vivono in modo integrato gli ambiti e non percepiscono diversità nel flusso cognitivo e sensoriale. Qui, a mio avviso, si possono riscontrare all’interno ulteriori casi, perché talvolta si esagera nel modo di trattare quest’integrazione, perché le differenze ci sono e solo la loro consapevolezza consente un dialogo telematico fecondo.
Questo commento è stato postato sulla nota Facebook dell’articolo, e qui ripreso.
Non voglio confondere digital dualism ma di augmented reality e intendo riferirmi alla realtà aumentata presentata in questo video http://vimeo.com/46304267.
Personalmente vedo alcuni problemi nella realtà aumentata. Ne riporto i principali prendendo il filmato come riferimento:
1) Che cosa è stato aumentato? Il volo iniziale è la classica realtà virtuale e l’approccio al bar è stato possibile grazie all’elaborazione dei dati socio-biologici della ragazza. Quello che è aumentata è la capacità di stimolazione dei nostri sensi, sono potenziate le informazioni che possiamo ricevere dal mondo circostante;
2) Nella realtà naturale, la realtà che oggi viviamo senza essere connessi a nulla, l’esperienza è il prodotto dell’elaborazione delle informazioni ricevute dai sensi. Nella realtà aumentata l’elaborazione avviene al di fuori di noi e ha valore cogente (c’è un affidamento completo del ragazzo alle informazioni ricevute);
3) La vita del ragazzo è una stimolazione autoreferenziata grazie all’utilizzo di apps: l’esperienza che vive è quella che vorrebbe vivere e le apps usate la realizzano. Non è questa la vita filtrata dalla bolla dei nostri interessi? (vedi conferenza di Eli Paliser, http://www.thefilterbubble.com/ted-talk);
4) La realtà aumentata stimola la socialità, creatività, intelligenza del ragazzo o si presenta come l’architetto della sua intimità?
5) Il ragazzo da una rappresentazione di sé alla ragazza e la conosce attraverso la rappresentazione della ragazza sui social network: entrambi vivono la “profilazione” del proprio sé “socialmente costruito”
a. Stiamo realizzando pienamente l’extimacy (Il termine, inventato da Jacques Lacan, indica un accesso all’interiorità. Ex-timacy esprime una “esteriorizzazione dell’interiorità” e quindi incapace di costruire relazione autentica e in grado, invece, di “drenare” tempo ed energie da forme più impegnative di coinvolgimento reciproco – C. Giaccardi).).
b. Stiamo passando da una realtà socialmente costruita ad una digitalmente costruita
6) La realtà naturale è solamente lo sfondo della nostra vita, il piano neutro su cui agiamo? Le sedie su cui siedono i ragazzi al bar non sono una rappresentazione o un inganno dei sensi come le montagne o le stelle. La natura non è uno sfondo neutro né una costrizione alle potenzialità della nostra vita. La natura ha le sue leggi e se non rispettate (ecologia) assistiamo a tutti i drammi dell’epoca contemporanea. Quindi la natura, il mondo circostante, la realtà che sperimento là fuori hanno un valore oggettivo (persino i padri del pensiero debole stanno ritornando a questa convinzione, vedi il Manifesta per il Nuovo Realismo di Ferraris) e se esiste un valore oggettivo non sono più io l’arbitro ed il centro del mondo. Posso iniziare a pensare che non ci sia un dio maligno ad ingannarmi su quello che è là fuori. Eppure, se affido la comprensione del mondo alla rappresentazione proposta dalla realtà aumentata, una sovrastruttura digitalmente costruita, non ritorno a quel soggettivismo nichilista dove dominano le rappresentazioni anziché i fatti? Come potrei rintracciare l’oggettività? (negando il realismo cose si arriva a Dio?)
7) Esiste un’app per vedere Dio?
Concludendo, la cosiddetta realtà aumentata è una realtà digitale costruita sulla mediazione della realtà naturale offerta ai nostri sensi dai dispositivi multimediali. La realtà digitale (mi piace di più definirla così) si base sui nostri bisogni affettivi e istituzionalizza l’extimacy La realtà digitale è autoreferenziata: soddisfa la propria intimità e realizza gli interessi e bisogni personali, crea uno schermo a tutte le pulsioni ed inferenze del mondo esterno, chiudendosi ad una vera conoscenza e relazione negando l’accesso alla realtà oggettiva.
C’è solo un motivo di speranza. La ragazza, che usa anche lei un dispositivo di realtà aumentata, si accorge dell’app “Wingman” solo quando la vede a casa del ragazzo, non prima. Che sia possibile disattivare il dispositivo? Se così fosse ecco che il dualismo digitale, cui abbiamo chiuso la porta principale, rientra dalla finestra.
Chi ha lasciato aperta la finestra? Chi è il colpevole?
Confesso di averla vista aperta e di non averla chiusa…
Vorrei aggiungere un’ulteriore osservazione
La dualità si manifesta più chiaramente in quei casi dove le persone mostrano una significativa differenza tra espressività reale e online. In tali casi la loro vita ‘online’ è totalmente diversa rispetto a quella socialità che esprimono de visu. Qualsiasi loro mail, commento o interazione social sarebbe molto differente (e in genere platealmente peggiore) rispetto alla stessa interazione duale.
Di questo credo non si dovrebbe non tenerne conto.