E così Joe Biden alla fine si è ritirato dalla corsa al secondo mandato della sua presidenza. Era nell’aria già da qualche settimana, e personalmente credo che sia stata la scelta giusta. Sarà la storia a decidere sul suo operato: sicuramente è stato un servitore dello Stato impegnato fino al massimo delle sue possibilità, e anche qualcosa in più.
La storia però non si ferma e siamo entrati, come ha detto Obama, in “acque inesplorate”.
Ma facciamo un passo indietro…
Sembrava ieri che di fronte a un tentato colpo di stato a Capitol Hill sostenuto da Trump e i suoi seguaci, l’account Twitter di un presidente evidentemente a difesa di quell’incredibile giornata, venisse bannato. Era il crepuscolo (digitale e reale) del 6 gennaio 2021.
E sembra sempre ieri che durante il Covid-19 Trump dicesse una quantità incredibile di sciocchezze e corteggiasse i novax, sopportando di malavoglia uno dei più eminenti virologi del mondo, quell’Anthony Fauci che cercava di salvare scienza e popolazione in piena pandemia dalle affermazioni del tycoon visibilmente in difficoltà, mentre Biden se ne stava prudentemente nel suo basement in attesa di poter dire grazie ai vaccini che il Covid avevano sconfitto.
Oggi la realtà sembra invertita, e non in meglio. Usciti dall’incubo del Covid (anche se non del tutto), Trump è riuscito a essere completamente riabilitato sia nella sfera digitale, dove i suoi account sono stati riattivati – e dove ha anche creato i suoi social di supporto, sia in parte nelle vicende giudiziarie che lo riguardano, dai 34 capi d’imputazione riconosciuti per il processo Stormy Daniels fino all’incriminazione per quell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 2021.
Non solo, la sua vicenda e campagna elettorale adesso ha assunto quasi un’aura messianica, dopo il fallito attentato del 13 luglio scorso, i cui contorni non sono stati chiariti del tutto. Tra l’altro nell’immediatezza dell’evento c’è stato un florilegio di fake news e di informazioni sui social le più molteplici e incredibili, che è stato ben descritto da un articolo di The Atlantic: oramai gli interessi delle piattaforme digitali a incentivare l’uso dei propri spazi unite alla vanità e al desiderio di affermazione di sé fanno un capitolo a parte nella quota di polarizzazione e di catastrofe delle news che stiamo vivendo. Ma per il momento torniamo ai nostri.
Non è solo Elon Musk a dimostrare un amore assoluto e un supporto anche economico a Trump (ci ritorneremo), ma molti finanziatori più o meno palesi. Musk però lo fa apertamente dopo essersi impossessato di Twitter, aver semidistrutto la piattaforma e il suo team di moderazione e trasformato il tutto in X, un social network che favorisce le idee di estrema destra rincorrendo i social Parler e Truth creati da Trump, un cluster digitale gigantesco dove ci sono i suoi sostenitori, con tutti gli optional delle loro narrazioni e follie. Un semplice ma efficace esempio può essere riassunto dal tweet di questo simpatico signore:
Le Big tech
Non è soltanto l’ascesa di un personaggio controverso e una galassia linguisticamente violenta come Trump e i trumpiani a preoccupare di nuovo, bensì quella delle multinazionali americane nel campo del digitale, nelle quali si sta riscontrando la stessa modalità operativa riscontrata in altri campi, cinica e spregiudicata.
In un editoriale del 21 luglio Ferruccio de Bortoli racconta bene la vicenda di Musk e dei sostenitori del mondo digitale che stanno investendo su Trump, come di quelli che parallelamente disinvestono da Biden:
«La decisione di Elon Musk di finanziare con 45 milioni di dollari al mese la campagna elettorale di quello che è già stato il 45° presidente degli Stati Uniti (anche se il divino pare abbia smentito la notizia) rientra nella normalità. Non stupisce. Il peso preponderante di alcuni donatori certifica ormai solo il successo di un leader, la sua forza attrattiva. Non suscita più, come un tempo, timori di eccessive dipendenze o di futuri scambi. Il discorso vale anche per i democratici. I finanziatori che premono perché Biden lasci non vogliono disperdere il loro investimento. Li si comprende come se tutto ciò rientrasse in una ipotetica normalità contrattuale.»
Alcune Big Tech, le grandi aziende tecnologiche inizialmente libertarie e tradizionalmente vicine ai democratici, si stanno avvicinando invece al probabile vincitore delle elezioni di novembre, indipendentemente dall’ideologia trumpiana di estrema destra e dal fatto che Trump stesso è il più grande propalatore di bugie scientificamente prodotte dai tempi di Nixon. È già ampiamente sostenuto, tra gli altri, dal fondatore di PayPal, Peter Thiel, e il candidato alla vicepresidenza, quel J.D. Vance – e ci ritorneremo – figura inquietante per tutte le suggestioni sociologiche e letterarie che lo circondano, ha lavorato proprio per Thiel. Un altro importante sostenitore e finanziatore è Marc Andreessen, sì proprio quel Andreessen inventore di Mosaic (per chi se lo ricorda) e di Netscape, cioè dei primi browser per il Web – oltre che co-fondatore di altre piattaforme come Digg o lo stesso Twitter: autore di un manifesto che esalta un capitalismo autoritario ed efficiente, include perfino una citazione futurista di Marinetti. Per capire da che parti stiamo.
Eppure, nonostante tutto, l’anomalia dell’immenso potere delle big tech appare ormai irrilevante di fronte alla sfida cinese e al ritorno bipartisan di un nazionalismo economico, che sta interessando l’America e non solo. In questi anni molti Paesi – compresa l’Italia – hanno cercato di ottenere l’approvazione dei guru miliardari della digital economy. «Tutti hanno chiuso gli occhi sull’aggressività delle loro lobby, rispetto alle quali le pratiche delle multinazionali petrolifere del Novecento appaiono persino più gentili e rispettose», conclude De Bortoli.
Il vice
Del Trump che abbiamo imparato (purtroppo) a conoscere, insieme con la sua spregiudicatezza politica, c’è l’abilità nel circondarsi di personaggi anche peggiori di lui, almeno politicamente, che oscillano tra i più estremisti, o più yes-man. Nel secondo caso abbiamo il vice della sua presidenza del 2016, Mike Pence, un uomo sicuramente conservatore ma fedele alle istituzioni. Nella prima categoria invece rientrava ad esempio Steve Bannon, lo stratega poi caduto in disgrazia, osannato dall’estrema destra mondiale per le sue idee che definire radicali è un eufemismo.
Adesso è la volta di una figura non meno inquietante e per certi versi pericolosa, James David “JD” Vance. Vance rientra nella prima categoria, quella radicalità dove alla base della narrazione ideologica non c’è soltanto il voler cambiare le cose, ma anche eliminare ciò che viene ritenuto “l’avversario”, includendo in esso il potere amministrativo stesso “contrario” all’ideologia del vincitore.
Vance, scrittore di successo (L’elegia americana è stato ed è un suo best seller delle destre mondiali, per quelle che leggono almeno), ex marine e politico cresciuto criticando aspramente Trump, appena ha fiutato l’occasione è divenuto senatore dell’Ohio quando si è liberato un posto nel partito repubblicano, pivotando clamorosamente a favore dell’ex nemico. Per inquadrare subito il personaggio, recentemente ha detto che, se nel 2020 fosse già stato il suo numero due, «avrebbe portato a termine il piano di Trump che prevedeva che il vicepresidente annullasse i risultati delle elezioni», e dunque ha dato ragione ai golpisti del 6 gennaio che, istigati da Trump, avevano assaltato il Congresso esattamente per fare a pezzi Mike Pence, il vicepresidente che si era rifiutato di assecondare il golpe. E infatti ha raccolto fondi per i rivoltosi.
Il fatto è che Trump, nonostante la sua energia e il suo iconico “fight” lanciato subito dopo l’attentato, che l’hanno proiettato verso una (eretica) deificazione, ha anche una certa età e sicuramente questa sarà più che altro una rivincita su chi lo voleva sconfitto. Ma uno dei veri protagonisti sarà il vice che ha scelto, non solo per i prossimi 4 anni.
Gianluca Mercuri nella rassegna stampa apparsa sul Corriere della Sera (non esattamente un giornale progressista) all’indomani della nomina da parte di Trump della convention di Milwaukee, ne estrae un ritratto non esattamente rassicurante:
«Il vicepresidente che ha indicato è invece nel pieno delle forze, una stella potentissima e abbagliante, un uomo in cui intelligenza, cultura, carisma, fascino personale, energia, giovinezza, determinazione, spregiudicatezza e una evidente inclinazione alla spietatezza ideologica strabordano da ogni atto e parola. Un uomo che ha solo 39 anni, e che dopo i prossimi quattro in cui Trump pare avviato a rioccupare la Casa Bianca e la scena mondiale, ha già ottime probabilità di succedergli nei successivi otto.»
Questo significherebbe che la «destra più drastica e potente della storia americana dominerebbe per 12 anni, 12 anni in cui condurrebbe un micidiale scontro di civiltà contro ogni espressione della sinistra culturale, quelle radicali come quelle moderate. La guerra non farebbe prigionieri, armate politico-ideologiche si accoderebbero ovunque a quella americana.»
Insomma, il clima da guerra ideologica che ha contraddistinto l’America degli ultimi anni e che ha polarizzato l’opinione pubblica in un dualismo spesso aggressivo o violento, sta per trovare terreno fertile in una coppia al potere che non si fa nessuno scrupolo di continuare a perpetrare quell’odio che già promana dalle intemperate trumpiane: no, qui siamo a un livello superiore, come un gioco (al massacro) in cui però al centro c’è la realtà, molto concreta, dell’importanza di essere la prima potenza militare, finanziaria e democratica al mondo.
Il background
Per capire un po’ meglio come viene fuori un tale successo però anche bisogna scavare nella recente storia (e nella geografia) americana, e in particolare nello stesso retroterra nel quale Trump aveva trovato il suo, di successo: la Bible belt ela Rust belt. La prima è la “cintura della bibbia”, la parte centro-meridionale (qui una mappa) di quell’America profondamente religiosa che aveva visto in Trump una sorta di argine allo strabordare dell’ideologia liberal e più recentemente dei woke (i “risvegliati” fedeli spesso alle idee della sinistra più radicale), sinistra che popola invece le due coste est, atlantica, con fulcro nella democratica New York, e ovest, dove c’è la Silicon Valley.
Tuttavia, quella più importante come numeri e come “delusione” ideologico-narrativa è la seconda. Il libro del candidato vice racconta proprio il declino della Rust belt, la “cintura della ruggine”, un tempo il cuore dell’industria pesante e della classe operaia bianca che ne è poi divenuta il simbolo della decadenza. Vance descrive magnificamente il mito e la realtà di un’America profonda e depressa, che rappresenta la base del revanscismo anti-élite. È spiegato bene cosa si cela dietro la reazione di una parte della popolazione, il maschio bianco americano a basso reddito, che la sinistra ha spesso ignorato e disprezzato, mentre la destra ha strumentalmente accolto e utilizzato, spesso seminando odio. La bellezza e la credibilità del libro risiedono soprattutto nel modo in cui Vance racconta la sua storia e quella della sua famiglia: senza una figura paterna stabile, con una madre alcolizzata e una «fiera nonna del Kentucky che possedeva 19 pistole e una volta diede fuoco al nonno (che sopravvisse) quando non ne potè più della sua violenza e dell’alcolismo».
Per capire meglio, però, il rapporto che c’è tra questi settori fortemente ideologizzati, delusi e violenti dell’elettorato americano e i candidati trumpiani come Vance, è utile leggere quanto scritto su di lui da Zack Beauchamp, uno dei massimi esperti americani della destra radicale, in un articolo su Vox dal titolo eloquente: What J.D. Vance really believes.
Nell’articolo Beauchamp racconta l’impressione che ebbe da un incontro con un uomo «amichevole, riflessivo e intelligente, molto più intelligente della media dei politici intervistati». Poi però cambia improvvisamente tono e scrive: «Ma la sua visione del mondo è essenzialmente incompatibile con i principi fondamentali della democrazia americana».
Il radicalismo
Il perché lo argomenta doviziosamente. A parte l’aver dato ragione ai golpisti del 6 gennaio 2021, istigati e difesi da Trump fino all’ultimo, ha invitato il Dipartimento di Giustizia «ad aprire un’indagine penale su un editorialista del Washington Post che aveva scritto un articolo critico su Trump», lasciando intravedere le intenzioni che si prefigge di mantenere con la libera stampa.
Dopo l’attentato all’ex presidente del 13 luglio, «ha cercato di sbianchettare il radicalismo di Trump attribuendo la colpa della sparatoria alla retorica dei democratici sulla democrazia». Ha detto che «Non è un incidente isolato. La premessa centrale della campagna di Biden è che il presidente Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato ad ogni costo. Questa retorica ha portato direttamente al tentativo di assassinarlo», ribaltando astutamente proprio la conseguenzialità potenziale della violenza del linguaggio che invece è prerogativa della destra radicale trumpiana.
Da queste parole si capisce già bene «l’agenda aggressiva» che Trump prima e Vance poi intendono implementare nei prossimi anni, e non solo i primi 4: uno spoil system fatto col napalm, una purga totale: Trump, ha detto Vance in un’intervista di febbraio alla Abc rimasta famosa perché il conduttore George Stephanopoulos si è indignato al punto di interromperla, dovrebbe «licenziare ogni singolo burocrate statale di medio livello» e «sostituirlo con la nostra gente». Se i tribunali tentassero di impedirlo, Trump dovrebbe semplicemente ignorare la legge. «Si presenti davanti al Paese come fece Andrew Jackson, e dica che ora che la Corte Suprema ha emesso la sua sentenza, la applichi se ci riesce».
Jackson — il cui ritratto campeggiava nello Studio Ovale di Trump — ignorò nel 1832 la sentenza della Corte Suprema che aveva deciso uno stop all’espropriazione di terre indiane da parte dei bianchi. «Il risultato fu la pulizia etnica di circa 60.000 nativi, un evento che oggi chiamiamo “Sentiero delle lacrime”», ricorda Beauchamp. A quanto pare, insomma, nella furia di porre il presidente al di sopra di qualsiasi organo di garanzia, il candidato della vicepresidenza evoca indirettamente una carneficina come precedente da seguire. Non esattamente ciò che si dice una persona moderata e riflessiva, prosegue.
Il succo che ne trae l’esperto, ci ricorda Mercuri, è questo:
«J.D. Vance è un uomo che crede che l’attuale governo sia così corrotto da giustificare misure radicali, persino autoritarie, in risposta. Si vede come l’avatar del popolo virtuoso d’America, i cui nemici politici sono intrusi che non meritano rispetto. È un uomo di legge che crede che il presidente sia al di sopra della legge».
E comunque gli indizi di una adesione sincera di Vance alle pieghe più reazionarie del moderno pensiero conservatore sono sparsi ovunque. I suoi riferimenti sono l’accademico Patrick Deneen, che invoca un «cambio di regime» in America, e il suo ex datore di lavoro e già citato sponsorPeter Thiel, il miliardario della Silicon Valley capace di dire «non credo più che libertà e democrazia siano compatibili».
Un concetto affine a quello della «democrazia illiberale» teorizzata da Viktor Orbán.
È il primo ministro ungherese il vero modello di Vance come di tutte le moderne destre mondiali. Lo ispira in molte cose — l’approccio verso la stampa e la magistratura, per esempio, che a Budapest sono diventate quasi interamente organiche al governo. Inoltre, come racconta bene l’Economist nell’articolo “Viktor Orban seizes control of Hungary’s universities”, a proposito delle università, Orbán «ha preso alcune decisioni intelligenti da cui potremmo imparare negli Stati Uniti», ha detto Vance. E si riferisce proprio alla conquista del mondo accademico da parte della destra ungherese a suon di finanziamenti statali, facendo capire che più che mai le università sono e sempre più saranno il campo di battaglia tra destra e sinistra e terreno fertile per ulteriore polarizzazione: se ora sono il laboratorio delle teorie progressiste più radicali e anche controverse, per l’uomo dell’Ohio devono cambiare di segno e diventare roccaforti del pensiero conservatore.
Insomma, forse non è un caso se Kevin Roberts, presidente del think tank di ultradestra Heritage Foundation, forza trainante del “Progetto 2025” che mira a orbanizzare l’America, dica apertamente che Vance «sarà assolutamente uno dei leader — se non il leader — del nostro movimento».