Luciano Giustini ragionamenti a lettere..

Alcune considerazioni sul nucleare

Nuclear power plant in Cattenom, France

 

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Il tema dell’energia nucleare si è riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica per due eventi concomitanti: l’11 marzo del 2011 un terremoto di proporzioni devastanti a largo della costa Est del Giappone ha provocato, oltre alla distruzione di migliaia di centri abitanti ed uno spaventoso numero di morti nella popolazione, anche il collasso della centrale nucleare di Fukushima, a causa dell’impatto delle onde per lo tsunami provocato dal sisma. L’impianto nucleare, uno dei più vecchi del Paese e composto da 6 reattori, è stato interessato da una serie di quattro distinti incidenti nucleari.

Al momento di scrivere l’articolo (fine maggio 2011) la situazione non è ancora stabilizzata, ed anzi la Tepco, la società che gestisce gli impianti in Giappone, ha confermato che è avvenuta la fusione dei noccioli dei reattori 1, 2 e 3, con un accumulo del materiale fuso alla base dei vessel (il contenitore del nocciolo); in tutti i casi i vessel continuano a perdere acqua che deve continuamente essere rimpiazzata.

Complessivamente l’incidente, nella prima settimana stimato al grado 4 della scala INES (scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici), quindi al livello 5 (a pari livello con il singolo Three Mile Island in cui però non si ebbero né esplosioni, né rilasci di radioattività nell’ambiente pari all’evento giapponese), ed è stato infine classificato dall’Agenzia per la Sicurezza Nucleare e Industriale del Giappone al grado 7, il massimo grado della scala, finora raggiunto solo dal disastro di Cernobyl’, considerando l’insieme dell’evento e non più i singoli incidenti distinti (classificati tra i livelli 3 e 5).

A causa del terremoto molti altri impianti nucleari giapponesi sono stati coinvolti, sia centrali nucleari che impianti del ciclo del combustibile, ma le maggiori preoccupazioni riguardano quattro dei sei reattori dell’impianto di Fukushima Daiichi, in particolare il reattore numero 4. E’ notizia di questi giorni che, come si temeva, anche le barre di combustibile nucleare dei reattori 2 e 3 si sono parzialmente fuse, e la situazione è passibile anche di peggioramento. Lo ha annunciato la Tepco, gestore dell’impianto nucleare.

Il secondo dato, che interessa la popolazione italiana, riguarda l’intenzione, più volte espressa dal nostro governo, di  riprendere la costruzione di centrali nucleari e la produzione di energia in suolo nazionale. Prima dell’incidente di  Fukushima, il governo Berlusconi attualmente in carica ha, infatti, iniziato un iter procedurale di accordi con la francese EDF per la costruzione di nuove centrali nucleari di terza generazione. Un comunicato diffuso da Areva (la multinazionale francese che gestisce gli impianti nucleari) rende noto che:

  • At the end of October 2008, Claudio Scajola, the Italian Minister for Economic Development, announced that the country  would begin work on the construction of new nuclear power plants by 2013. Italy’s long-term aim is to achieve an energy mix of 25% nuclear, 25% renewables and 50% fossil fuels.
  • In February 2009, the Italian power generator Enel and its French counterpart EDF signed two industry agreements paving  the way for close cooperation between France and Italy for the construction of new nuclear power plants. Under the terms  of these agreements, Enel now holds a 12.5% stake in the Penly 3 EPR™ reactor, two years after having acquired the same  level of holding in the Flamanville 3 plant. In August 2009, EDF and Enel formed Sviluppo Nucleare Italia, a 50/50 joint  venture based in Rome to conduct feasibility studies for the development of four EPR™ reactors in Italy.
  • In January 2010, the Italian government gave its final approval to legislation setting out the criteria governing the process  of selecting locations for eight future nuclear power plants. Claudio Scajola believes that work on the first projects will  begin in 2013, with power generation following in 2020.

Come si vede, il cronoprogramma è già definito: prevede la costruzione delle centrali a partire dal 2013, e si basa su un accordo già siglato tra Enel e EDF.

Dopo l’incidente della centrale nucleare giapponese, tuttavia, il governo, sull’onda emotiva dell’accaduto ha introdotto una moratoria (ovvero una sospensione) di un anno per poter “riflettere in modo approfondito” sulla possibilità di reintrodurre il nucleare in Italia. Dopo alcuni mesi il premier Berlusconi dichiarava che in realtà questo serviva per far calmare gli animi e non “agire sul riflesso di un’onda emotiva”. In effetti il programma del governo “rimane lo stesso e cioè proseguire nel nucleare” (dichiarazione resa durante una conferenza stampa a Villa madama con il presidente francese Sarkozy). A breve termine, dunque, il referendum abrogativo del 12 e 13 giugno, nonostante il tentativo del governo di rendere inutile
il quesito sul nucleare, ha mantenuto tra i tre anche quello che interessa l’abrogazione di articoli di legge collegati alla produzione di energia nucleare.

A questo punto facciamo un passo indietro.

La produzione di energia da fonte nucleare era stata bocciata in Italia con il referendum del 1987. Le quattro centrali che allora erano ancora in funzione o in procinto di entrarci, sono state chiuse o smantellate, e le scorie radioattive di vario grado sono state affidate a consorzi di stoccaggio che da allora sono costati all’Italia circa 10 miliardi di Euro, che continueranno almeno fino al 2021. Come si è arrivato a questo? Perché il nucleare da noi fa tanto paura?

LA CAPRICCIOSA FISSIONE E LA CHIMERICA FUSIONE

La produzione di energia dall’atomo si può ottenere sostanzialmente in due modi: per fissione (scissione del nucleo dell’atomo) o per fusione (del nucleo di due o più atomi). Allo stato attuale delle conoscenze e della tecnologia, però, soltanto il primo caso è attuabile, mentre centrali nucleari del secondo tipo sarebbero le più vantaggiose e pulite.

Nel mondo attualmente sono in funzione 440 centrali nucleari a fissione di cui 150 in Europa (la maggioranza delle quali di seconda generazione, mentre le più moderne sono di terza generazione). La produzione elettrica da nucleare si attesta, a livello mondiale intorno al 17% (24% nei paesi OECD, 35% nell’Unione Europea, dove sostanzialmente la maggiore produttrice è la Francia).

In una centrale nucleare a fissione refrigerata ad acqua leggera, come ogni centrale elettrica basata su un ciclo al vapore, avviene una reazione che libera calore utilizzato per la vaporizzazione dell’acqua e quindi la generazione di lavoro meccanico. Il principio fisico alla base della generazione del calore è la fissione nucleare, ovvero la scissione del nucleo di atomi pesanti quali uranio e plutonio. La potenza degli impianti varia da un minimo di 40 MW fino ad oltre 1 GW. Le centrali più moderne hanno tipicamente potenza compresa tra i 600 MW e i 1600 MW.

La vita operativa di una centrale nucleare è in genere intorno ai 25 anni, per quelle di I e II generazione, e di 40-60 anni per quelle di III generazione. Al termine di questo periodo l’impianto va smantellato, il terreno bonificato e le scorie stoccate adeguatamente. Questi aspetti, in parte comuni ad esempio alle miniere ed agli impianti chimici, assumono particolare rilevanza tecnica ed economica per le centrali nucleari, riducendo il vantaggio dovuto al basso costo specifico del combustibile (uranio). Il costo di smantellamento viene oggi in parte ridotto prevedendo un lungo periodo di chiusura della centrale, che permette di lasciar decadere naturalmente le scorie radioattive poco durevoli, costituite dalle parti di edificio sottoposte a bombardamento neutronico (vedi paragrafo sotto: i quattro problemi del nucleare).

Per quanto riguarda i consumi, in base ai dati a disposizione, una centrale nucleare da 1000 MWe necessita all’incirca di 30 tonnellate di uranio arricchito all’anno o 150/200 tonnellate di uranio naturale. La produzione di tali quantitativi di uranio presuppone l’estrazione di grandi quantitativi di roccia e l’uso di ingenti quantitativi di acidi ed acqua per la concentrazione del minerale: ad esempio la miniera di Rossing in Namibia (concentrazione di uranio al 0.033% e rapporto waste/ore a 3) per estrarre quel quantitativo di uranio per l’arricchimento considerato richiede l’estrazione di circa 2.5 milioni di tonnellate di minerale e di 120-150.000 tonnellate di acqua [fonte], altri calcoli invece individuano, per un arricchimento al 3.5%, un fabbisogno di 6 milioni di tonnellate di minerale, l’uso di 16.500 tonnellate di acido solforico e di 1.050.000 tonnellate di acqua. [fonte]

Infine, per quanto riguarda il rendimento termodinamico, va evidenziato che le centrali nucleari hanno una efficienza di conversione del calore in energia elettrica piuttosto bassa. Infatti solo una parte variabile dal 30% al 35% della potenza termica sviluppata dai reattori è convertita in elettricità, per cui una centrale da 1000 MW elettrici ha una produzione di calore di 3000-3500 MW termici (MWt); a titolo di confronto una centrale a ciclo combinato a metano ha rendimenti che raggiungono il 57% [fonte]. La conseguenza di ciò è la necessità di dissipare in atmosfera, in fiumi o in mare, enormi quantità di calore poco pregiato con un fabbisogno di acqua di raffreddamento veramente molto cospicuo; se per qualche motivo la portata d’acqua al condensatore di raffreddamento del vapore fosse insufficiente, si dovrebbe ridurre la produzione di energia elettrica, alla stregua di un qualunque impianto termico, sia nucleare, o a biomasse o a solare termodinamico. Ad esempio in Francia il raffreddamento delle centrali elettriche nel 2006 ha assorbito 19,1 miliardi di metri cubi d’acqua dolce, cioè il 57% dei prelievi totali d’acqua del paese.

CENNI – FUSIONE NUCLEARE

Qualche cenno sul tema della fusione. La fusione è il processo di reazione nucleare attraverso il quale i nuclei di due o più atomi vengono compressi tanto da far prevalere l’Interazione forte sulla repulsione elettromagnetica, unendosi tra loro ed andando così a generare un nucleo di massa maggiore dei nuclei reagenti; la fusione di elementi fino ai numeri atomici 26 e 28 (ferro e nichel) è esoenergetica, ossia emette più energia di quanta ne richieda il processo di compressione, oltre è endoenergetica, cioè assorbe energia. Il processo di fusione è il meccanismo che alimenta il Sole e le altre stelle; all’interno di esse si generano tutti gli elementi che costituiscono l’universo dal litio fino all’uranio ed è stata riprodotta dall’uomo con la realizzazione della bomba H. Studi sono in corso per riprodurre a fini energetici e a scala industriale fenomeni di fusione nucleare controllata. Le centrali a fusione nucleare produrrebbero come principale tipo di scoria l’elio, che è un gas inerte e non radioattivo, inoltre non userebbero sistemi a combustione e  quindi non inquinerebbero l’atmosfera: di fatto non avrebbero emissioni di pericolosità rilevante, ad esclusione del trizio. In più dovrebbero essere in grado di generare grandi quantità di energia, superiori rispetto a quelle delle centrali a fissione odierne. Esistono vari meccanismi di fusione nucleare,  e il più facile da produrre artificialmente richiede l’utilizzo di due isotopi pesanti dell’idrogeno: deuterio e trizio.  Il problema principale della fusione  allo stato attuale è che richiede temperature di lavoro elevatissime, tanto elevate da non poter essere contenuta in nessun materiale esistente. Il  plasma di fusione viene quindi trattenuto grazie all’ausilio di campi magnetici di intensità elevatissima, e le alte temperature vengono raggiunte con  vari metodi, come l’iniezione di neutri, radioonde e nella prima fase di riscaldamento con correnti indotte (Effetto Joule). Il tutto rende il processo difficile tecnologicamente, dispendioso e complesso. Il problema delle scorie derivanti dall’attivazione neutronica di parti degli edifici del reattore,  dovrebbe essere ridotto: i tempi di decadimento della radioattività indotta nei suddetti materiali sarebbero comparabili con i tempi di  vita delle centrali stesse. E benché le quantità di materiale attivato possano essere considerevoli, il problema del loro stoccaggio potrebbe essere più semplificato  rispetto al caso delle centrali a fissione. Comunque sia, i risultati nel campo della ricerca di materiali a bassa attivazione, sono  incoraggianti.

 

I QUATTRO PROBLEMI DEL NUCLEARE

La problematicità relativa alla produzione di energia nucleare si può riassumere in quattro fattori:

  1. La costruzione delle centrali ed il reperimento del combustibile e dell’acqua di raffreddamento per farle funzionare.
  2. La possibilità di fughe radioattive e di disastri nucleari durante il ciclo di funzionamento.
  3. La produzione di scorie radioattive e il loro successivo stoccaggio anche dopo lo smantellamento.
  4. Lo smantellamento.

Sulla costruzione delle centrali, il loro utilizzo, ed il reperimento del combustibile nucleare, parleremo più sotto, così come dei disastri ed incidenti. Il problema principale, attualmente, è il numero 3: trovare il posto adatto dove stoccare le scorie, anche se del numero 1, l’uranio e l’acqua, parleremo ancora. Ancora nessun Paese ha trovato un deposito di stoccaggio appropriato, neanche gli Stati Uniti, che sono uno dei paesi con più produzione nucleare al mondo: il loro tentativo di costruire un superbunker nel Nevada per raccogliere le scorie radioattive ad alto livello di tutto il paese, è stato abbandonato  dopo aver speso decine di miliardi di dollari in ricerche. Ma anche lo smantellamento di una centrale richiede tempi  estremamente lunghi e diverse volte superiori al tempo di costruzione e di funzionamento. Ad esempio l’Autorità inglese per  il decommissioning ha ritenuto che per il reattore di Calder Hall a Sellafield in Gran Bretagna, chiuso nel 2003, i lavori  potranno terminare all’incirca nel 2115 [fonte].

LE SCORIE, UN PROBLEMA “ANNOSO”

Prodotto della fissione del combustibile nucleare sono le cosiddette scorie nucleari (che, per inciso, non vengono solo  prodotte da centrali nucleari ma anche da fonti mediche ed industriali). All’interno del reattore nucleare, il materiale fissile  (uranio, plutonio ecc.) viene bombardato dai neutroni prodotti dalla reazione a catena ma non si ha mai una fissione totale di  tutto il “combustibile”: la quantità di atomi effettivamente coinvolta nella reazione a catena è anzi molto bassa. In questo  processo si generano due principali categorie di atomi: quelli “appesantiti” (attinidi), e i cosiddetti prodotti di fissione (cesio, stronzio ecc); in parte sono allo stato gassoso.

A seconda del “combustibile” e del ciclo (cioè in pratica della tipologia di reattore/i) utilizzati, la radiotossicità delle scorie può essere nettamente differente; questo si traduce in tempi di isolamento delle scorie che oscillano indicativamente dai 300 anni  al milione di anni. Questo è il tempo necessario affinché le scorie diminuiscano la loro radiotossicità fino al valore dell’uranio  naturale; dopo tale periodo la radiotossicità delle scorie non è zero, ma comunque, essendo pari a quella dei giacimenti di  uranio normalmente presenti nella crosta terrestre, è accettabile in quanto sostanzialmente si ritorna – in termini di  radiotossicità – alla situazione di partenza.

Complessivamente il combustibile esausto costituisce le “scorie radioattive”. Si noti che i cicli all’uranio determinano scarichi nettamente più radiotossici e di lunga vita rispetto ai cicli al torio, e che gli attuali reattori (2º e 3º gen. ad uranio)  determinano i risultati di gran lunga peggiori con un milione di anni per ridurre la radiotossicità al valore dell’uranio di  partenza. Tutte le categorie di combustibili esausti e di prodotti di fissione, accumulandosi, tendono ad impedire il corretto  svolgersi della reazione a catena e pertanto periodicamente il combustibile stesso deve essere estratto dai reattori ed eventualmente riprocessato (e questo stesso procedimento è a rischio di incidente nucleare).

I circa 440 reattori nucleari presenti in 31 nazioni producono annualmente migliaia di tonnellate di scorie. Un reattore ad  acqua pressurizzata da 1000 MWe scarica annualmente da 40 a 70 elementi combustibili contenenti 460 kg di uranio ciascuno; il 94% del combustibile esausto è costituito da U238, l’1% da U235 (elementi presenti in natura), il 3-4 % da prodotti  di fissione (quali cesio, stronzio, iodio, tecnezio, etc.), pericolosi se liberati in caso di incidente, ma innocui dopo qualche  centinaio di anni se custoditi in un deposito geologico.

I rifiuti nucleari vengono suddivisi in tre grandi categorie:

  1. Basso livello: sono i più abbondanti e scarsamente pericolosi.
  2. Medio livello: sono costituiti, ad esempio, dalle guaine degli elementi combustibili del reattore; richiedono una  schermatura, ma costituiscono solo il 7% delle scorie (e contengono il 4% della radioattività).
  3. Alto livello: costituiscono il 3% delle scorie ma contengono il 95% della radioattività e sono i più pericolosi a lungo termine.

Per i rifiuti della seconda e terza categoria, a valle del trattamento con il quale si riduce il loro volume, si compie prima un’operazione di “condizionamento”, che consiste nell’inglobare (o, nel caso di liquidi, solidificare) i rifiuti all’interno di una  matrice solida, tipicamente cemento o, per una piccola parte, la più calda, di quelli della terza categoria, vetro trattato con  metodologie speciali. I rifiuti condizionati sono posti successivamente in due tipologie di depositi:

  • Depositi di tipo ingegneristici: costituiti cioè esclusivamente da strutture fabbricate.
  • Depositi di tipo geologico: realizzati in formazioni profonde, ad esempio argillose o saline dotati di particolari  caratteristiche di durata nel tempo, stabilità, ecc.

Qualsiasi categoria si consideri, nello smaltimento il principale pericolo è costituito dalle infiltrazioni d’acqua, anche minime  o minimissime, dati i periodi di dimezzamento molto lunghi e la complessa catena di decadimenti necessaria per raggiungere  la stabilità nucleare. La più importante garanzia nello smaltimento dei rifiuti nucleari è, quindi, rappresentata proprio dalla  natura dei siti prescelti: miniere di salgemma vecchie milioni di anni (non vi è mai stata acqua che avrebbe sciolto il sale),  banchi basaltici o depositi in zone desertiche, situati al di sopra delle falde acquifere. Le scorie vengono in tali casi depositate  a 500-1000 metri di profondità e pertanto si presume che nessun danno da irraggiamento diretto sia possibile. [fonte]

Il problema è che allo stato attuale nessuna nazione è riuscita ancora a trovare un luogo idoneo e definitivo per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi [fonte]. (si veda sotto il paragrafo “YUCCA, o del fallimento dello stoccaggio”)

In genere comunque, prima del riprocessamento o comunque prima del deposito delle scorie, queste vengono stoccate per  non meno di 5 mesi, ma arrivando anche agli anni di attesa, in apposite piscine d’acqua situate nel complesso delle centrali  che hanno lo scopo di raffreddare il materiale radioattivo, e schermare la radioattività generata dagli elementi con tempo di  dimezzamento più breve, in attesa che questa scenda a livelli accettabili per intraprendere la fasi successive.

A parte tali elementi molto pericolosi ma a vita breve, il problema maggiore legato alle scorie nucleari riguarda infatti  l’elevatissimo numero di anni necessari affinché si raggiunga un livello di radioattività non pericoloso. Il “tempo di  dimezzamento” è il tempo che un determinato elemento impiega a dimezzare la propria radioattività: è quindi necessario un tempo molte volte superiore a questo affinché l’elemento perda il proprio potenziale di pericolo. Si consideri che ad esempio il plutonio, con un tempo di dimezzamento di circa 24.000 anni, richiede un periodo di isolamento che è nell’ordine di 240  mila anni e che, nel suo complesso, il combustibile scaricato da un reattore di 2a o 3a generazione ad uranio mantiene una  pericolosità elevata per un tempo dell’ordine del milione di anni.

YUCCA, O DEL FALLIMENTO DELLO STOCCAGGIO

Il problema, ancora irrisolto ed economicamente molto oneroso, è dove conservare in condizioni di sicurezza la crescente  quantità di scorie radioattive prodotte dagli impianti nucleari, che restano altamente pericolose per migliaia di anni.

Negli Stati Uniti era stato deciso di concentrare le scorie radioattive in un unico deposito sotterraneo, costruito sotto lo Yucca Mountain, (Nevada meridionale, 160 km a nord-ovest di Las Vegas), un monte di tufo alto quasi due chilometri. Nei suoi  tunnel avrebbero dovuto essere conservate, in oltre 12.000 contenitori, oltre 70.000 tonnellate di scorie radioattive (63.000  delle quali provenienti dalle centrali elettronucleari e 7000 da impianti nucleari militari). Il costo e la complessità  dell’operazione sono sempre stati enormi. Solo per gli studi preliminari del terreno e il progetto sono stati spesi 8 miliardi di  dollari; per la costruzione del deposito, si prevedeva una spesa di almeno 70 miliardi di dollari. Si trattava poi di trasferirvi il materiale radioattivo, attualmente conservato in 131 depositi sotterranei distribuiti in 39 stati: per il trasporto occorrerebbero 4600 treni e autocarri che dovrebbero attraversare 44 stati. Ma è successo qualcosa. Dopo quasi 20 anni di ricerche e lavori  preparatori, il congresso americano nel marzo del 2008 ha definitivamente abbandonato il programma di costruzione ed  apertura del gigantesco impianto di stoccaggio delle scorie ad alto livello di Yucca, a causa dei giganteschi costi associati al  trasporto ed allo stoccaggio, alla manutenzione e alla gestione dell’impianto ed ai problemi di sicurezza (perlopiù derivanti  dalle infiltrazioni) che non avrebbero potuto essere garantiti per il numero di anni definiti dalle specifiche (> 10.000). [fonti:  -1- -2- -3- ]

Al momento non è stata ancora trovata una destinazione alternativa e le scorie continueranno ad accumularsi nei depositi  esistenti (non sotterranei) dislocati negli stati. Il deposito di Yucca Mountain aveva ottenuto una licenza dal NRC per 70 anni  di esercizio, in previsione di un probabile riutilizzo futuro delle scorie stesse, che contengono ancora circa il 95% di energia  sotto forma di isotopi di uranio e plutonio.

(seconda parte)

Map in French of the French nuclear power plants.

 

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IL FABBISOGNO ENERGETICO

L’Italia, come sistema fisico nazionale comprendente le proprie centrali e le  proprie stazioni di pompaggio, nel 2009 ha avuto consumi per circa 337.601 GWh  di energia elettrica. Tale dato è il cosiddetto “consumo o fabbisogno  nazionale lordo” e indica l’energia elettrica di cui ha bisogno il Paese per far  funzionare qualsiasi impianto o mezzo che necessiti di energia elettrica. Tale  dato è ricavato come somma dei valori indicati ai morsetti dei generatori  elettrici di ogni singolo impianto di produzione e il saldo degli scambi con  l’estero. Il dato di consumo nazionale lordo contiene una percentuale pari al  13,3% di energia importata dall’estero.

Per quanto riguarda invece la potenza richiesta, l’Italia ha bisogno mediamente  di circa 38,5 GW di potenza elettrica lorda istantanea. Tali valori oscillano tra la  notte e il giorno mediamente da 22 a 50 GW.

Per quanto riguarda la potenza installata (ovvero la potenza massima erogabile  dalle centrali), l’Italia è tecnicamente autosufficiente; le centrali esistenti a tutto il 2009 sono infatti in grado di erogare una  potenza massima netta di circa 101 GW contro una richiesta massima storica di circa 56,8 GW (picco dell’estate 2007) nei periodi più caldi estivi.

Tornando al fabbisogno energetico italiano, l’Italia importa una quantità di potenza elettrica media che, durante l’anno, con  una capacità netta trasmissibile che ha il suo minimo (3800 MW) nel mese di agosto in fase notturna e un massimo di 8000  MW in fase diurna invernale, raggiunge un totale di circa 40000 GWh netti all’anno. (va comunque menzionato che la stessa  Enel è in alcuni casi anche comproprietaria di alcuni impianti di produzione esteri; tale elettricità sarebbe dunque in questi  casi ancora dell’Enel sebbene prodotta fuori dai confini nazionali).

L’importazione non è proporzionale alla richiesta: il fabbisogno energetico italiano viene sostenuto da corrente prodotta  all’estero per un’aliquota che può oscillare tra meno del 10% in fase diurna fino a punte massime del 25% durante la notte.  Tale importazione avviene da quasi tutti i paesi confinanti, anche se le quote maggiori sono quella proveniente dalla Svizzera  e, a seguire, dalla Francia (è da notare, tuttavia che attraverso la Svizzera viene veicolata anche parte dell’energia francese  richiesta dall’Italia vista l’insufficienza degli elettrodotti diretti); considerando dunque questi due Paesi insieme, da Francia e  Svizzera proviene quasi l’80% di tutta l’importazione italiana di elettricità.

Parte di questa energia viene prodotta con centrali nucleari. Il Gestore dei Servizi Energetici italiano pubblica ogni anno una  stima dell’origine dell’energia effettivamente immessa nel sistema elettrico italiano comprendente anche gli scambi con  l’estero; per il 2009 il nucleare, integralmente d’importazione, incideva per l’1,5% del totale. [fonte]

In effetti l’importazione notturna è percentualmente molto più importante di quella diurna proprio a causa della natura della  produzione elettrica con centrali nucleari; queste infatti hanno limitate possibilità di modulare in economia la potenza  prodotta e quindi l’energia prodotta durante la notte (in cui l’offerta supera la domanda) ha basso costo di mercato. Ciò  consente di fermare in Italia durante la notte le centrali meno efficienti e le centrali idroelettriche a bacino e di attivare le  stazioni di pompaggio idriche che poi possono “rilasciare” nuovamente energia durante il giorno. Questo meccanismo ha reso  economicamente conveniente l’importazione di energia dall’estero, da cui il grande sviluppo del commercio di energia negli ultimi anni.

Il parco centrali italiano è in grado di coprire il fabbisogno interno dell’Italia (dati Terna, 2010). La stessa Enel, se costruisse le  centrali nucleari, non coprirebbe che il 12/13% del fabbisogno.

Ciò che ha richiamato l’attenzione sul bisogno del nucleare è stata la considerazione che, per la richiesta di energia che ha il  nostro Paese, noi paghiamo in media il 30% in più di bolletta di tutti gli altri paesi europei. Il motivo è semplice ed è dovuto al  fatto che, soprattutto per il fabbisogno industriale e per l’elettricità, dipendiamo dal gas (che alimenta il 65% delle centrali  termoelettriche italiane). Mentre in altri paesi ci sono materie prime, risorse naturali, centrali nucleari, depositi  fossili, fonti rinnovabili, e chi più ne ha più ne metta, noi abbiamo aumentato negli ultimi anni la dipendenza dalle fonti  fossili, gas e petrolio. Il problema del gas è che a livello europeo ci sono 400 milioni di utilizzatori ed un solo produttore:  GAZprom. A livello dell’Italia abbiamo un 40% di approvvigionamento che proviene anche da Libia ed Algeria, ma con i  problemi che si possono intuire nell’ultimo periodo (a margine del discorso si capisce anche perché il governo è così  interessato ad avere buoni rapporti con Russia e Libia). Il discorso è da una parte cercare di spuntare un prezzo migliore  tramite il cosiddetto Compratore Unico europeo, che ancora stenta a realizzarsi compiutamente, e dall’altra di diversificare i  fornitori. Per il problema del petrolio, invece, che è l’altra fonte dalla quale dipendiamo, sostanzialmente per il solo  autotrasporto, rimando ad un mio articolo “Perchè aumentano i prezzi del petrolio e dei carburanti“. (pubblicato su Autoblog.it).

Quello che vorrei sottolineare, ora, è che in realtà non c’è una relazione tra consumo di energia e bisogno di centrali nucleari.  Perlomeno non in un contesto di nazioni relativamente piccole come quelle europee. Per il consumo di queste nazioni, la percentuale di energia prodotta dalle centrali è non solo totalmente rimpiazzabile dalle fonti rinnovabili (come abbiamo visto nel caso della Germania, che comunque ha un consumo di energia ben maggiore del nostro), ma si ottiene un guadagno, sia in  termini di prodotto, ad esempio col sistema delle reti intelligenti (ogni produzione autonoma eolica e solare produce un  surplus di energia che può essere ridistribuito alla rete o immagazzinato), sia in termini di riconversione dei centri di  produzione, che contribuisce in ultima battuta anche alla formazione di posti di lavoro, alla costruzione ed alla ristrutturazione edilizia energy-friendly.

Il discorso del cosiddetto “spreco energetico” è un concetto che purtroppo viene affrontato collegandolo malamente ai dati reali. Se il consumo medio di una famiglia si assesta sui 3.000 kWh all’anno, un risparmio energetico che si potrebbe ottenere  facendo attenzione al proprio stile di vita consentirebbe di risparmiare qualche decina di euro. Ma messa così, a nessuno  interessa “non sprecare”, perché economicamente è alquanto irrisorio: il fatto è che deve diventare un valore etico, di civiltà che comprende che soltanto insieme si può progredire nell’utilizzo consapevole delle risorse. Si deve entrare nella “coscienza ecologica collettiva” che deve essere una decisione generalizzata affinché produca effetti reali. Se soltanto una famiglia su 100, o un comune su 100 o un’impresa su 100 (specialmente se medio-grandi) adottano accorgimenti “green” non ha di fatto beneficio sull’ambiente. Si pensa che fabbisogno energetico e spreco siano due entità collegate tra loro in modo lineare. In realtà il problema non è di quanta energia si abbia bisogno, ma di come la si sta usando. Il tipo di circolo virtuoso che bisogna mettere in moto è di questo tipo: se la mia  energia la sto usando bene, allora ne posso anche chiedere di più e l’ente pubblico può incentivare la transizione a maggior regime. Ma se la sto usando male, ad esempio usando processi a basso rendimento o inquinando l’ambiente, non ho diritto a chiederne di più, e l’ente regolatori deve disincentivare questo uso.

È un problema che si compone di due aspetti: uno tecnico ed uno comportamentale. Detto in altri termini, il discorso non è di  “quanta” energia si ha bisogno ma di “come” viene prodotta e in che modo viene utilizzata. Se ho una automobile elettrica, la cui energia proviene da una centrale fotovoltaica, o da fonti comunque rinnovabili non ha più importanza se faccio il giro del mondo e avrò usato quell’energia, perché avrò usato energia pulita e non avrò prodotto inquinamento (fatto salvo quello generato dal consumo di pneumatici e dall’usura dei materiali). L’energia deve essere considerata un bene prezioso, ma soprattutto utilizzato nel rispetto della salute di tutti ed in modo  consapevole. Ormai abbiamo gli strumenti tecnici e le rilevazioni per capirlo, quello che rimane è soltanto la volontà politica di applicare gli accorgimenti obbligatori per tutti.

Un esempio ancora utile può essere il mondo dell’automobile. Ciò che ha determinato il decisivo abbattimento dell’inquinamento prodotto dalle auto è stato, negli anni Novanta e successivi il passaggio generalizzato alla marmitta catalitica ed alla riduzione  delle emissioni di particolato (Pm10) dei motori diesel. Ma se pensate che l’inquinamento delle nostre città sia dovuto prioritariamente alle auto vi sbagliate: il particolato sottile e le emissioni di gas serra prodotti dalle auto ricoprono solo l’8-9%, il resto viene dalle emissioni industriali e le centrali termiche (25%), dai processi produttivi (10%), dagli impianti domestici (12%), dal trasporto marittimo aereo e ferroviario (15%), dai processi di combustione naturali (10%), e per il 15% da autobus e veicoli commerciali (ISPRA, 2010).

Quindi soltanto tenere acceso il motore di un pullman in città 10 minuti contribuisce più o meno allo stesso inquinamento di 50 automobili messe insieme a regime massimo per un’ora. Se pensiamo  alle nostre città turistiche prese d’assalto dai pullman, viene da piangere (pensateci quando vedrete il prossimo mezzo fermo col motore acceso per “scaldarlo”…). Dunque non è solo comprando auto ibride o in futuro elettriche che si risolve il problema, ma anche obbligando i veicoli commerciali ed i pullman ad utilizzare motori meno inquinanti ed a non farli sostare accesi quando non serve: quindi tecnica e comportamento.

Inoltre, prima di chiederci come ottenere l’energia, dovremmo chiederci se veramente abbiamo bisogno di tutti i chilowattora che siamo abituati a consumare. In fin dei conti, quello che rende piacevole la nostra vita non è tanto l’energia in sé, ma i  servizi che quell’energia ci fornisce. La stessa luce può essere prodotta con lampadine a basso  consumo; la stessa distanza  può essere percorsa con mezzi meno inquinanti; lo stesso prodotto può essere confezionato con meno sprechi e provenire da  più vicino. Risparmiare energia non vuol certo dire tornare al lume di candela, né peggiorare la nostra vita. Anzi, è vero il  contrario: la tecnologia ci può aiutare nella lotta agli sprechi e il nostro stile di vita ha tutto da guadagnare se impariamo a  preferire la qualità alla quantità (a titolo di esempio su www.comunivirtuosi.org si possono trovare alcuni progetti già  avviati da amministrazioni pubbliche in tal senso).

 LA VORAGINE ENERGETICA DELLA CINA

Fin qui abbiamo visto il mondo “consapevole” ed “eco-cosciente” dell’Europa, più o meno allargata.

Molto diverso è il discorso, però, di Stati Uniti, Russia e Cina, soprattutto di questa ultima. E qui veniamo ad un altro tema  scottante, ovvero il fabbisogno di energia del gigante cinese e del suo spaventoso e rapido sviluppo industriale, che sta  divorando tutto quello che incontra (risorse, forza lavoro, energia, beni, ecc.), e sta dirottando su di sé tutte le materie prime  (petrolio, rame, litio, carbone, ecc.), soprattutto provenienti da Russia, Paesi arabi, e dall’Africa, con percentuali di crescita a  due cifre ogni anno. E’ chiaro che non c’è energia per tutti, ma bisogna capire chi è che la sta usando di più.

E per capire questo possiamo sfruttare il dato relativo alle emissioni.

Nel 2009 la Cina ha scavalcato gli Stati uniti diventando responsabile il più imponente quantitativo di anidride carbonica nel  mondo: 7.711 milioni di tonnellate contro le “sole” 5.425 milioni di tonnellate degli USA. Per avere un termine di paragone, si  può considerare che l’Eurasia, incluse le repubbliche ex Unione Sovietica e l’Ucraina, non supera i 2.000 milioni di tonnellate  e l’Italia nello specifico si ferma a 408, ponendosi al 17° posto. Nel mondo complessivamente si sono prodotte circa 31.000  milioni di tonnellate di CO2 nel 2009. Il dato importante è che sono uguali a quelle del 2008 a causa della contemporanea  diminuizione delle emissioni di gas serra dell’Europa, della Russia e dell’America e del simmetrico aumento della produzione  di gas serra della Cina e dell’India. In altre parole, tanto noi facciamo per cercare di essere “green”, tanto tutti i nostri sforzi  sono annullati dalle economie cosiddette “emergenti” (fonte: US Energy Information Administration/ McCormick & Scruton,  2010)

A causa del fabbisogno spaventoso di energia, la Cina sta costruendo 27 nuove centrali nucleari che saranno operative nel  prossimo decennio ed altre 13 sono già in funzione.

Ma anche la Russia non sta a guardare e ha in programma la costruzione di 16 nuove centrali aumentando al 25% dal 12%  attuale di prodiuzione energia, anche per far fronte all’aumentato fabbisogno di energia proprio di quei paesi che come la  Cina e l’India stanno richiedendo quantità enormi di energia. In generale, bisogna considerare che i paesi del cosiddetto BRIC  (Brasile Russia India e Cina) stanno tutti aumentando di quantità considerevoli il loro sviluppo industriale ed economico.

A questo punto, parlare di riduzione della produzione di anidride carbonica in Italia a causa della costruzione di quattro  centrali, (che comunque, per la durata della costruzione e per l’estrazione dell’uranio ne producono molta di più), perde  qualsiasi senso.

Ma non ci sono solo brutte notizie, naturalmente. Anche e soprattutto a causa dell’enorme richiesta di energia e di crescita  della Cina, si sta dando un impulso notevole a tutte le possibilità: gli analisti prevedono una crescita del 50 per cento delle  industrie di punta del fotovoltaico in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, nel 2011, e uno sviluppo veloce della tecnologia a film sottile. La stima è che il solare sia già oggi vicino alla competitività nei paesi con una maggiore insolazione (California,  Italia, Turchia). Riguardo agli aspetti sulle fonti rinnovabili, rimando alle conclusioni.

L’URANIO E LA SUA ESTRAZIONE

C’è poi un altro problema. Contrariamente a quello che alcuni pensano, la disponibilità dell’uranio non è infinita, anzi. Le   riserve attuali di uranio sono prevalentemente in Australia, in parte minore in Canada, ed in paesi ex-URSS [fonte]. La durata  al consumo attuale varia da stime prudenziali di 80 anni a max 200 anni [fonte].

Quella delle riserve di petrolio attuali al consumo attuale di mezzo secolo. Stando agli studi dell’Agenzia internazionale per  l’energia atomica l’uranio comincerà a scarseggiare dal 2030-2035. Ma la questione è anche un’altra. L’attività mineraria per  estrarre l’uranio è una delle attività industriali che consuma più energia ed emette più CO2. Le miniere di uranio di solito  sono a cielo aperto e sprofondano come gironi danteschi sino a 250 metri nel sottosuolo; i giacimenti più profondi vengono  trattati con una tecnica che recupera l’uranio utilizzando un processo chimico che prevede perforazioni nel deposito di  minerale in cui poi vengono iniettate centinaia di tonnellate di acido solforico, ammoniaca ed acido nitrico per entrare in contatto col minerale e scioglierlo per essere in seguito aspirato in superficie e trasformato. Si ottiene così circa un quarto  dell’uranio presente nelle rocce trattate ma si inquinano le falde idriche e, nelle miniere convenzionali, si creano quantità  enormi di metalli tossici e radioattivi, dispersi nell’ambiente locale. È molto noto il caso del Niger, dove i francesi di Areva  (l’azienda che possiede i brevetti dei futuri quattro reattori italiani), gestiscono diversi impianti. Il Niger è un paese povero in  cui il 40% dei bambini è malnutrito e il 54% della popolazione non ha accesso ad acqua pulita. In cambio dell’uranio estratto,  Areva ha lasciato a queste popolazioni montagne di scorie radioattive incustodite, riutilizzate poi persino per costruire strade.

GLI INCIDENTI NUCLEARI

Uno dei principali problemi dell’approccio al nucleare e della sua descrittività tecnica, di cui ci siamo fin qui occupati, è che  viene descritto il “migliore dei mondi possibili”. In termini più precisi, si tende a considerare la totalità degli eventi possibili  come gestibile e prevedibile a priori. Ma la produzione di energia nucleare è un oggetto complesso, dal suo funzionamento  allo stoccaggio del combustibile, dalle scorie radioattive alla possibilità di guasti, dai terremoti ai potenziali eventi terroristici,  che, anche a dispetto delle previsioni più pessimistiche, nessuno potrà mai avere la certezza di poter controllare  del tutto: qualcosa può andare storto, e la storia lo dimostra.

Ora, il fatto che “qualcosa vada storto” in un contesto ad esempio ferroviario, significa che un treno può provocare un  numero molto alto di morti e feriti nell’area circostante; che “qualcosa vada storto” in una raffineria di petrolio, può  significare un disastro ambientale gravissimo. Ma che “qualcosa vada storto” in una centrale nucleare, ha una caratteristica  diversa da questi esempi: è imprevedibile. L’escursione dei gradi di pericolosità di un incidente nucleare si estende da  qualche persona intossicata, a centinaia di migliaia di contaminati dovuti ad una reazione a catena incontrollabile, alla  liberazione della nube radioattiva dalle dimensioni non quantificabili, all’inquinamento delle zone circostanti, delle falde, dei  mari, dell’aria che respiriamo. In tutto questo, non c’è l’attenuante del problema in loco perché, se la storia di Cernobyl ci  ha insegnato qualcosa, è che questi eventi hanno una dislocazione che può interessare anche posti molto distanti tra loro:  l’incidente nucleare in Ucraina innalzò il livello di radioattività in gran parte dell’Europa centrale. Mentre gli effetti sulla  popolazione sono stati a medio e lungo termine devastanti.

Uno dei problemi derivanti da incidenti nucleare non è la morte “immediata” delle persone ma la contaminazione. Quando  si sente dire che il disastro di Chernobyl ha provocato “solo” poche decine di morti è molto fuorviante. Ci sono state decine di migliaia di persone  che hanno subito malattie degenerative gravissime per contaminazione diretta, per la contaminazione  della catena alimentare, del terreno e delle falde, e centinaia di migliaia di malati a lunga degenza che vivono tra grandi  sofferenze in vari ospedali del mondo – e non ho citato le malformazioni dei nati.

Il programma nucleare giapponese, paese che ha le centrali costruite per resistere a terremoti del più alto grado della scala  Richter, ha registrato in passato numerosi problemi, tra cui esplosioni, guasti indotti da terremoti, crisi nei reattori  autofertilizzanti e piccoli rilasci di radioattività: mai però prima d’ora un incidente aveva assunto dimensioni catastrofiche.  Adesso questo è successo, in una centrale con 6 reattori progettati da un’azienda degli Stati uniti, la General Electric, e gestita  dalla Tokyo Electric Power Company (Tepco), una delle maggiori imprese di energia nucleare nel mondo sviluppato. Prima  era arrivata Chernobyl ed aveva paralizzato l’industria nucleare europea. La fiducia del mercato nell’energia nucleare era  crollata.

Nessun nuovo reattore è stato costruito negli ultimi 25 anni e i pochi progetti presenti hanno avuto vari problemi: a  cominciare dal Reattore Pressurizzato Europeo (Erp) sviluppato dalla francese Areva, in costruzione in Finlandia. L’Epr è 42  mesi in ritardo sul progetto, ha sforato del 90% il budget previsto, e deve rispondere a ben tremila obiezioni poste dagli enti di  sicurezza atomica di Finlandia, Gran Bretagna, Stati uniti e della stessa Francia.

Dobbiamo tirare almeno una lezione da queste crisi: valgono per l’India, che sta per imbarcarsi in un programma per raddoppiare la sua capacità nucleare, come per ogni paese che abbia simili ambizioni. Quella nucleare è la sola forma di  produzione di energia passibile di incidenti catastrofici, con danno sanitario e contaminazione ambientale sul lungo periodo.  Un errore umano o un evento naturale possono innescare una catastrofe, e questo perché i reattori sono intrinsecamente  vulnerabili. Si tratta di sistemi ad alta pressione ed alta temperatura in cui la reazione a catena di fissione ad alta energia è  controllata da sistemi complessi e delicati: un problema in un sotto-sistema può essere trasmesso agli altri e ne risulta amplificato, con il rischio che l’intero sistema entri in crisi. [cit.]

Per dirla alla Rifkin (vedi oltre): “Il problema col nucleare è che si tratta di un’energia con basse probabilità di incidente, ma ad  altissimo rischio. Ovvero: non succede quasi mai niente di brutto, ma se qualcosa va veramente storto può essere una catastrofe  planetaria.”

 GLI ALTRI

Come molti già sanno, l’Italia è di fatto circondata da centrali nucleari: centrali francesi, tedesche, slovacche e ceche, per  citare le più vicine.

Dopo gli ultimi accadimenti, tuttavia, in altri Paesi europei dove l’energia prodotta proviene anche dal nucleare, ci sono stati  sommovimenti politico-economici piuttosto importanti: in particolare la Germania ha annunciato di voler abbandonare  completamente il programma nucleare (entro il 2021) e così anche la Svizzera. La decisione della Germania è particolarmente  significativa a causa della massiccia presenza di industria pesante presente sul suo territorio, la cui richiesta  di energia si ritiene di poter soddisfare completamente tramite fonti rinnovabili. Mentre in Giappone, dei 17 impianti chiusi dopo il disastro di Fukushima, 8 non saranno più riattivati [fonte 1 – fonte 2].

E’ scattata la fuga dal nucleare. Prima la Siemens ha annunciato la rinuncia a ogni investimento nel settore rompendo i ponti con l’industria atomica francese. Poi Toshiba ha annunciato un ridimensionamento delle attività nucleari a favore delle rinnovabili e  delle smart grid su cui investirà 6 miliardi di euro (“Se tutti nel mondo sono contrari all’energia nucleare non ha senso  continuare a dire che questa tecnologia sarà il pilastro della nostra strategia”, ha dichiarato il presidente di Toshiba, Norio  Sasaki). Adesso – secondo quanto riporta Bloomberg – è il direttore della General Electric, Mark Little, a sostenere che il solare  potrebbe essere più economico dei fossili e del nucleare nel giro di 5 anni.
(“Fotovoltaico batte nucleare in 5 anni“)

CONCLUSIONI

Alla fine di questo lungo excursus, abbiamo provato a chiarirci le idee su quello che si intende per nucleare e le sue  implicazioni, a partire dalle centrali per finire alle scorie ed allo smaltimento dei rifiuti radioattivi. Ho proposto alcuni dati e  considerazioni di natura più tecnica ed economica per consentire di farsi un’idea, secondo un percorso comunque personale.

Non ho la pretesa di essere stato esaustivo sull’argomento, anzi in molti casi si è solo accennato agli aspetti principali: c’è in rete moltissimo materiale sul quale si può  approfondire sulle specifiche tematiche, verificarle, farsi una propria idea e valutare i pro ed i contro.

Il principale contro del nucleare comunque, a parere della maggior parte delle valutazioni, è costituito dall’impatto  ambientale. In duplice forma: per le scorie radioattive, per le quali va trovato un sito di stoccaggio, e che comunque durano  centinaia e migliaia di anni, e per l’enorme imprevedibilità di diffusione geografica dell’eventuale danno radioattivo con le  nubi tossiche, l’inquinamento dell’acqua, delle coltivazioni ecc.

Se  si eccettuano i posti di lavoro dati dal nucleare (ma come vediamo neanche questi sono certi) e la percentuale di energia  prodotta, i vantaggi di produzione sembrano vanificati dalla grande quantità di svantaggi, di scorie e di problemi tecnici che  gli impianti nucleari portano fisiologicamente con sé. L’uranio ha peraltro, come si è visto, una durata limitata, esattamente  come il petrolio. Allo stato attuale, la fissione nucleare, che abbiamo visto essere molto dispendiosa e potenzialmente  instabile, sembra appartenere al passato, più che al futuro, ed è un’eredità pesante con cui dobbiamo fare i conti e li dovremo  fare ancora per molti anni. Abbiamo anche visto che le nazioni più evolute dal punto di vista della coscienza energetica,  stanno abbandonando questa tecnologia. Unica eccezione la Francia, per ovvie ragione: la maggior percentuale di energia  elettrica in quel paese proviene dalle centrali nucleari ed è quasi mono-energetica, secondo una precisa scelta che è stata fatta nei decenni passati.

La domanda che ci si potrebbe porre, alla fine di questo lungo ragionamento, non è se fare o no le centrali nucleari, ma che fare delle centrali nucleari. Senza dimenticare che la Cina, un paese che ha una fame spaventosa di energia e che è di fatto  senza un controllo democratico, sta costruendo decine di nuove centrali nucleari. Nel 2011 può accadere anche questo.

E per noi italiani resta un interrogativo di fondo, se volete un po’ polemico ma realista: se a l’Aquila, a causa di una serie di  motivi che non è questa la sede per discutere, non siamo stati capaci di costruire una casa dello studente che resistesse ad un  terremoto del grado 5,9 della Richter, saremmo capaci di costruire centrali nucleari sicure? E ancora, nessuno sa ancora bene come trasportare e stoccare le scorie. Gli Stati Uniti hanno investito 8 miliardi di dollari in 18 anni per stoccare i residui  all’interno di una montagna (lo Yucca) dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi 10 mila anni. Bene, hanno già  cominciato a contaminare l’area nonostante i calcoli, i fondi e i super-ingegneri. Davvero l’Italia crede di poter far meglio di noi?  L’esperienza di Napoli non autorizza troppo ottimismo. E questa volta i rifiuti sarebbero nucleari, con conseguenze  inimmaginabili. (Intervista a Jeremy Rifkin, da Repubblica)

E qui concludo con un tema molto importante per un discorso almeno completo sull’energia: le fonti rinnovabili, appunto. Non ho parlato dell’energia dalle fonti rinnovabili perché questo articolo non era su tale argomento, ma sul nucleare.  Se non ci fossero le rinnovabili, l’utilizzo dell’energia nucleare rappresenterebbe una valida quanto necessaria alternativa alle fonti fossili. Ma ci sono, e quindi è giusto affrontare almeno brevissimamente, a margine, questo argomento.

Le cosiddette rinnovabili sono costituite sostanzialmente da tre soggetti:

  1. Idroelettrico
  2. Biomasse (e rifiuti)
  3. Solare ed eolico

Il dato da considerare è che già oggi le rinnovabili rivaleggiano con l’atomo in quanto a percentuale di energia prodotta. Nel  2020 si prevede che la quota delle rinnovabili sarà completamente pari a quella del nucleare ed inizierà a superarla, oggi  l’attività è di rimpiazzo delle vecchie centrali. Nel 2050, l’anno in cui si prevede che potranno realizzarsi le prima centrali a  fusione nucleare, le rinnovabili sostituiranno l’atomo (rapporto McKinsey, 2010).

“Sta scherzando? Voi siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c’è anche il  geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse. Eppure, con tutto questo ben di Dio, siete indietro rispetto a Germania,  Scandinavia e Spagna per quel che riguarda le rinnovabili”, chiosa ancora Rifkin, le cui opinioni a favore delle rinnovabili sono  note a priori.

La scelta dunque è politica, più che tecnica: bisogna decidere su cosa si investe. Ma questo è un articolo sul nucleare. Per  approfondire il tema delle rinnovabili, c’è un numero sterminato di risorse in rete. Mi limiterò a segnalarne una secondo me  ben fatta ed è un rapporto denominato “ENERGIA” fatto dall’associazione cattolica “Beati i Costruttori di Pace” di Padova, che mette in risalto il confronto tra energia nucleare e energia da rinnovabili. Questo è il link per scaricarlo dal sito di Persona è futuro.

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(Nota dell’autore. Poiché l’articolo è molto lungo, ho predisposto anche una versione in formato PDF, disponibile sul sito di “Persona è futuro“)